Andrea Bricca e la sua vita nel calcio, passando da Conte e Sarri e da “quella volta da solo a San Siro”

Ha vissuto una prestigiosa carriera, diventando tra l’altro colonna dell’Arezzo ai tempi della Serie B, con Gustinetti, Conte e Sarri. Uomo squadra, allenatore nel DNA: la sua storia oggi su TeverePost

Andrea Bricca (immagine originale gentilmente concessa da vasansepolcro.it)

Uomo squadra per eccellenza, centrocampista di straordinaria costanza e di sicuro rendimento, calciatore affidabile e tatticamente intelligente, che per le sue caratteristiche era considerato allenatore in campo e che poi, una volta smesso di giocare, ha davvero iniziato la carriera da tecnico. Andrea Bricca ha mosso i primi passi nel calcio a Cerbara, è poi approdato nel Sansepolcro dove dagli allievi ha effettuato il salto in prima squadra, prima di passare all’Arezzo, formazione con cui ha totalizzato in vari momenti 168 presenze tra Serie D, Serie C e Serie B. In carriera ha indossato anche le maglie di Sora, Sangiovannese, Castel Rigone, Ancona, Rimini, Virtus Villafranca e Pietralunghese. Una storia intensa, fatta di impegno, professionalità, passione e dedizione diventando giocatore apprezzato dagli allenatori e dalle varie tifoserie, come sempre accade a chi dà tutto. Con la maglia dell’Arezzo ha vissuto le emozioni più forti giocando 52 gare in Serie B e diventando pedina fondamentale nelle squadre dirette da Gustinetti, Sarri e Conte. Sostanza ed equilibrio, al servizio della causa. Una volta smesso di giocare, Andrea si è laureato in Scienze Motorie e Sportive ed ha iniziato l’avventura da allenatore, come molti tra l’altro avevano previsto. Le prime esperienze in panchina sono state con Lama e Sansepolcro in Eccellenza Umbra, categoria che affronterà anche nel 2020-2021 alla guida del Castel del Piano. Andrea ha ripercorso con noi i momenti più significativi della sua avventura.

Partiamo dal tuo esordio nella prima squadra del Sansepolcro, avvenuto quando ancora giocavi con gli allievi. Ti aspettavi così presto quel salto tra “i grandi”?

“Ho cominciato negli esordienti del Cerbara, poi mi ha preso il Sansepolcro e Roberto Scarscelli negli allievi sperimentali mi ha affidato la fascia da capitano. È stata quella la prima soddisfazione. La stagione dopo ho continuato con gli allievi diretti da Valori ed è arrivato l’esordio in prima squadra, al Buitoni e con Trillini in panchina. Fu una grande sorpresa e una emozione indimenticabile. Facevo il terzo superiore e mi sembrava incredibile il fatto di aver già giocato in Serie D”.

Negli anni successivi sei entrato stabilmente in prima squadra e ti sei ritagliato un ruolo importante.

“Erano gli anni del passaggio da Sansepolcro ad Altotevere, in panchina c’era mister Valori ed in campo giocatori forti come Lacrimini, Testamigna e Gaggioli. Assieme a me c’era Cangi, con cui ho condiviso il percorso tra i giovani e alcune stagioni successive. Sono stati anni importanti perché iniziavo a sentirmi giocatore. Mi sembrava eccezionale in un primo momento anche fare due allenamenti al giorno, poi è diventato la prassi. Mi sono ritagliato il mio spazio e non era scontato vista la giovane età e dato che giocavo a centrocampo, in un ruolo di responsabilità. Al momento ci pensi poco, poi ti accorgi di quello che hai fatto. Oggi è bello rileggere ad esempio i primi articoli su di me, ritagliati dai giornali di quegli anni. Ne ho ritrovato uno particolare”.

Quale?

“Una gara amichevole che con la Nazionale di Serie D io e Cangi giocammo a Coverciano al cospetto della Nazionale Italiana maggiore guidata da Trapattoni. Una grande emozione per me e per la mia famiglia con di fronte campioni eccezionali, che poi l’anno dopo andarono ai Mondiali. C’erano Vieri e Totti, giusto per citarne due, e a centrocampo io me la dovevo vedere soprattutto con Tacchinardi, con cui poi feci la foto”

Nell’estate 2001 ti acquistò l’Arezzo, in C1. Un passaggio importante e un momento da ricordare.

“Me lo ricordo bene. Mi ero appena diplomato e già ero fidanzato con Sara che poi è diventata mia moglie. Quando mi chiamò l’Arezzo dovevamo andare in vacanza in Croazia e mi ero già fatto prestare l’auto da mio fratello. Chiamai Sara e le dissi: “ho una notizia brutta e una bella. La brutta è che dovremo fare meno giorni di vacanza, la bella e che ho firmato per l’Arezzo”.

E lei?

“Fu ovviamente molto contenta. Sara mi ha sempre sostenuto ed è fondamentale nella mia vita. Stiamo insieme da 20 anni ed abbiamo affrontato ogni cosa assieme. Nove anni fa ci siamo sposati e 6 anni fa è nata nostra figlia Adele, la gioia più grande”.

Cosa ricordi dei primi anni ad Arezzo?

“La società amaranto acquistò me e Cangi ed aveva l’obiettivo di salire in Serie B, ma all’inizio le cose non andarono come immaginato. Le prime due stagioni sono state caratterizzate da diversi cambi di allenatore e non sono state facili, ma mi hanno fatto crescere anche a livello caratteriale. Nella mia seconda stagione retrocedemmo in C2 e la società aveva allestito una rosa per risalire subito. Quando eravamo in ritiro a Città della Pieve arrivò la bella la notizia del ripescaggio in C1. La cosa cambiò tutto visto che a fine stagione vincemmo quel campionato salendo addirittura in Serie B”.

Sotto il profilo personale non fu una stagione fortunata, ma la cavalcata con Somma in panchina e la salita in Serie B fu per l’Arezzo straordinaria.

“Era una squadra fortissima che sapeva quello che voleva e che seppe tirar fuori il massimo dopo due anni difficili. Un mix vincente tra giovani di livello come Abbruscato e Serafini e giocatori esperti. Grande merito di Somma che dette organizzazione e serenità a una rosa di qualità e che ebbe l’intuizione giusta mettendo Serafini trequartista. Tutto andò per il verso giusto e il successo fu meritato. Io purtroppo causa infortunio giocai solo una partita e saltai il resto della stagione. Una gioia che quindi mi sono gustato solo in parte, ma quel trionfo resta nella storia amaranto”.

Come valuti la stagione successiva a Sora?

“Ero reduce dall’infortunio, ma avevo recuperato. In panchina c’era Capuano che non mi vedeva e nelle prime dieci gare non giocai mai. Poi ci furono due infortuni in contemporanea a centrocampo e così feci il mio esordio. Da quel momento ho sempre giocato titolare. È stata però una stagione poco felice per me”.

Poi di nuovo ad Arezzo in B con Gustinetti in panchina e i play off per la Serie A sfiorati. Un bel rientro in amaranto?

“Debuttai in B a Brescia, gara pareggiata 0-0, in uno stadio prestigioso e in una categoria importante. Per la prima volta avevo il mio cognome scritto sulla maglia e fu una novità visto che in C non era così. Fu strano e bello, perché mi fece capire di essere un giocatore vero. La squadra era eccezionale, il gruppo unito e alla fine rimanemmo fuori dai playoff per un gol. Resta una stagione storica per il calcio aretino, però dico che c’erano le condizioni per fare ancora meglio e per salire in Serie A. Un pizzico di rammarico c’è”.

Rammarico superiore nella stagione successiva, quella di Conte e Sarri in panchina, ma anche dei 6 punti di penalizzazione e dell’amara retrocessione in C1. Da dove si inizia?

“Intanto dal dire che più di una Serie B quello era un campionato di A2 con Juve, Napoli, Genoa e tante altre piazze importanti. A livello personale è stata forse la mia annata migliore e il fatto che due grandi allenatori come Conte e Sarri mi fecero sempre giocare lo conferma. Purtroppo abbiamo iniziato male quella stagione con una penalizzazione mal digerita ed ingiusta che ha pesato tanto. Il presidente Mancini era convinto che ci avrebbero restituito i 6 punti e noi lo stesso, però non fu così e retrocedemmo per 1 punto, in una ultima giornata molto amara. Noi andammo a vincere a Treviso e non mi aspettavo che lo Spezia andasse a vincere a Torino con la Juventus. Fu una grande delusione. Io avevo sempre tifato Juve, da quel momento non più”.

Non male per te una stagione con due allenatori che ora sono tra i top al mondo, Sarri e Conte. Come ce li puoi descrivere?

“Sono molto più simili di quanto vengono descritti, nella immensa passione per il calcio e per il lavoro. Sono arrivati in alto, forse attraverso percorsi differenti, ma sinceramente me lo aspettavo perché si vedeva che entrambi avevano qualcosa in più. Maniacali in senso positivo nel vivere il calcio. Sarri era già così, un uomo vero che è come si vede, vestito di scuro, con le sue sigarette che conosceva tutto di tutti i giocatori e con a mio avviso un’intelligenza superiore alla media anche al di fuori del calcio e Conte un fenomeno del campo, motivatore straordinario, allenatore che se lo segui ti dà tutto e con il quale, dopo il suo ritorno, vincemmo 8 partite su 11. E’ stata una fortuna averli incontrati ed ho imparato tantissimo da tutti e due”

In quella stagione hai giocato contro la Juve in campionato e contro il Milan in Coppa Italia, affrontando campioni assoluti. Chi ti ha impressionato di più?

“La Juve appena scesa in B aveva tra le sue fila alcuni Campioni del Mondo della nostra nazionale e il Milan era più o meno la stessa squadra che l’anno dopo vinse la Champions League. Il top del calcio mondiale o quasi e tantissimi fuoriclasse. A colpirmi è stato soprattutto Seedorf, per la sua classe, la sua eleganza e il suo carisma. Una luce diversa dagli altri. Tanti ricordi di quella stagione. Giocare a San Siro in Coppa Italia con il Milan ad esempio fu incredibile. Non nego che durante il riscaldamento quando i giocatori rossoneri uscirono dal tunnel mi fermai un attimo ad ammirarli, poi ovviamente tutto passò e l’unico pensiero fu di dare il massimo. Quella sera è piena di ricordi, anche dopo la partita”.

In che senso?

“A fine partita ero arrabbiato per la sconfitta e non chiesi la maglia a nessuno di quei campioni. Poi venni sorteggiato per il doping e mentre ero lì arrivo Ramaccioni, tifernate e dirigente del Milan con in mano la maglia di Pirlo che mi regalò. Poi per il doping non riuscivo a fare la pipì e il dottore mi disse di provare ad andare in campo a piedi nudi sull’erba. Così feci solo che i riflettori erano stati spenti e l’unica luce era quella di emergenza. Io da solo all’interno di un San Siro vuoto e buio, un monumento imponente, con un fascino incredibile”.

Altre due stagioni ad Arezzo in C1 con squadre sempre attrezzate, ma senza risalire più in B.

“Non era facile, però abbiamo fatto dei buoni campionati. Il presidente Mancini ha sempre costruito rose di grande valore portando ad Arezzo allenatori e giocatori formidabili. Aveva passione e voleva portare in alto la squadra. Di tecnici abbiamo parlato, tra i tanti calciatori forti cito Floro Flores, campione che meritava di giocare anche in una big e che penso sia tra i più forti della storia amaranto”

Hai fatto anche un gol nella tua carriera all’Arezzo.

“A San Giovanni nel derby quando vincemmo 3-0. In macchina eravamo io, Beati e Mezzanotti, tre che con il gol non avevano certo confidenza. Ci prendevamo in giro spesso dicendo, chi segna paga da bere. Quel giorno io segnai con un gran tiro da fuori e andarono in rete anche loro due. Il ritorno in macchina diciamo che fu divertente. Un solo gol, ma tante presenze e tanti ricordi. Sono molto legato alla squadra e alla città, Spero che le difficoltà attuali vengano superate e non nego che un giorno mi piacerebbe tornare ad Arezzo, in altre vesti rispetto a quelle di giocatore”.

La parte successiva della tua carriera?

“Dopo due anni a San Giovanni con problemi societari sono sceso in Serie D in una squadra ambiziosa come era in quegli anni il Castel Rigone. Condizioni ideali e piazza giusta, ma forse sbaglia a scendere di categoria perché poi risalire è difficile. Mi sono tolto altre soddisfazioni e le ultime partite le ho giocate in Promozione con la Pietralunghese quando avevo iniziato a lavorare anche al di fuori del calcio. Buon lavoro e un’azienda forte, ma il pallone mi mancava e così ho intrapreso il percorso di allenatore finora con Lama e Sansepolcro. Nella prossima stagione sarò in panchina con il Castel del Piano, squadra giovane e con un bel progetto. Ho tanta voglia di ripartire”.

In molti dicevano “Bricca è allenatore in campo”. Avevi anche tu questa sensazione?

“Ho sempre immaginato di prendere questa strada una volta smesso di giocare. Il mio sogno è allenare per tanti anni, senza pormi limiti. Mi piace lavorare sul campo e aiutare i giocatori a crescere raggiungendo i risultati attraverso il giusto spirito. Il consiglio che più mi piace è quello di dare il massimo, di avere il fuoco negli occhi per affrontare ogni momento, bello o brutto”.

Soddisfatto della tua carriera di calciatore?

“Ho dedicato la vita al calcio e ho dato tutto. Ho fatto degli errori, ma questo fa parte del gioco. A volte per esempio dovevo seguire di più il mio istinto, che si è poi rivelato giusto. Dagli errori fatti ho sempre cercato di imparare, per crescere e migliorare, da giocatore e da allenatore. Magari potevo di più ma penso che alla fine ognuno ha quello che si merita e di quanto fatto sono sicuramente soddisfatto”.

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