Giorgio Bonfante, un calcio a “ritmo di musica”

Giocatore tecnico e dotato di fantasia, capace di accendere la passione dei tifosi e di lasciare un’impronta indelebile in ogni squadra, compreso quel Sansepolcro che nel ‘78-‘79 salì in Serie C

Il Sansepolcro 1978-79. Bonfante è il terzo in piedi da destra

Impossibile per chi lo ha visto giocare dimenticarsi di lui, del suo modo di stare in campo, della sua tecnica, delle sue giocate e della sua capacità di disegnare calcio. Giorgio Bonfante è stato senza alcun dubbio uno dei migliori talenti transitati in Valtiberina ed è stato uno dei grandi protagonisti di quel Sansepolcro che al termine della stagione 1978-1979 centrò la storica Promozione in Serie C2. La sua avventura in bianconero è durata 3 stagioni e ha rappresentato uno dei periodi più felici di una carriera di alto livello, caratterizzata dalla voglia di divertirsi e di divertire, dal coraggio di cercare la giocata e di vivere il calcio con una passione genuina e in maniera mai banale. I suoi gesti tecnici erano eleganti e armoniosi, un calcio a ritmo di musica verrebbe da dire, prendendo spunto proprio da uno dei grandi amori che lo hanno accompagnato nel corso degli anni. Ha militato prevalentemente in Serie D e Serie C e chi lo ha visto giocare sa che avrebbe meritato anche palcoscenici più prestigiosi, ma a prescindere dalla categoria di appartenenza è stato certamente uno dei giocatori simbolo di un calcio affascinante, tecnico, fatto di guizzi e di gente che al pallone “sapeva dare del tu”. Su TeverePost ripercorreremo i momenti più significativi della storia calcistica di Giorgio Bonfante.

Quando hai iniziato a giocare a calcio?

Da piccolo, con gli amici di quegli anni, nel piazzale della chiesa, a Minerbe, paese in provincia di Verona, in cui sono nato e cresciuto. Facevamo gli uno-due con le panchine e dribblavamo gli alberi, per così dire, ma ci divertivamo. Il calcio è sempre stato una grande passione. Successivamente cominciai poi più seriamente nella società del paese, il Minerbe appunto. Qui feci tutta la trafila nel settore giovanile e a 16 anni debuttai in Prima Categoria con la prima squadra. Pensa che nella mia gara di esordio giocai nel ruolo di libero.

Come mai?

Tecnicamente ero bravo e da ragazzo il mio allenatore per farmi capire come marcavano i difensori a volte in allenamento mi faceva giocare da stopper. Nella partita del mio debutto in prima squadra affrontavamo l’Audace San Michele, squadra in cui era cresciuto il grande Mariolino Corso. Il libero titolare era assente e quindi il mister mi fece ricoprire quel ruolo. Ero nervoso, tanto che non mangiai niente, né il sabato e né la domenica. In campo la tensione si sciolse, ma a fine incontro avevo un forte mal di testa. Sentivo molto le partite, cosa che ha caratterizzato tutta la mia carriera. Lo stress mi faceva accumulare acidi e se andavamo in ritiro mi agitavo ancora di più. Per combattere questa sensazione dovevo rimanere tranquillo e pensare il meno possibile alla gara. Per questo cercavo di sdrammatizzare, ma non tutti gli allenatori capivano il mio stato d’animo.

Quali sono stati i passaggi successivi della tua carriera?

Al Minerbe rimasi un paio di stagioni e feci buone cose, tanto che molte società si informarono su di me. Feci dei provini con la Reggiana e con la Juventus ad esempio, fui richiesto anche dal Vicenza e mi venne riferito che gli osservatori spesso commentavano con queste parole “è bravo, però è troppo magro, fatelo mangiare un po’ di più”. Il Vicenza fu una possibilità concreta, ma l’offerta economicamente migliore arrivò dal Nicastro, in Calabria, società che militava in Serie D. Se devo esser sincero non sapevo neanche in quale parte dell’Italia fosse, ma mi trovai bene. Mi presentai al primo incontro parlando in dialetto veneto e dopo mezzora di chiacchiere mi dissero che non avevano capito nemmeno una parola. Rimasi solo una stagione e ci piazzammo mi pare al 6° posto. In panchina c’era Roncarati che mi dette fin da subito fiducia lasciandomi in campo piena libertà di movimento. Mi faceva giocare con il numero 11 e mi diceva di non ripiegare sotto la linea di centrocampo, ma di pensare soltanto alla fase offensiva. Quindi io sceglievo la posizione migliore e in certi casi anche l’avversario che secondo me potevo mettere più in difficoltà. Fu una buona stagione e a fine campionato, nel 1971, mi chiamò il Pescara in Serie C.

Come fu la tua prima esperienza nel calcio dei professionisti?

Era una piazza importante e le cose iniziarono nel modo migliore. Nelle prime 5 gare giocai bene e realizzai anche 1 gol. Contro il Matera entrai dalla panchina e feci l’assist, contro il Frosinone segnai da fuori area al volo di sinistro. Poi però, senza voler entrare nel dettaglio, qualcosa si incrinò e da novembre in pratica non giocai più. L’anno dopo fu quello del militare e potendo uscire poco dalla caserma, persi anche la successiva stagione. Calcisticamente parlando quindi dovetti ripartire da zero. Finito il servizio di leva andai in Calabria, al Castrovillari, ma lì restai solo pochi mesi, perché mi dissero “ti vuole una società vicino a casa”. Io provai a immaginare quale fosse, ma sinceramente non ci sarei mai arrivato.

Di quale società si trattava?

Ecco io feci la stessa domanda e quando mi dissero che era l’Alghero dissi “ma è in Sardegna, mica vicino a casa”. La spiegazione fu “ma con un’ora d’aereo sei lì”. Comunque accettai con entusiasmo e fu la migliore scelta che potessi fare. In Sardegna giocai 3 anni e mi fidanzai con la ragazza che è diventata mia moglie. La squadra era forte e mi trovai benissimo, in campo e fuori. Alla fine della prima stagione mi chiamò la Torres, ma dopo pochi allenamenti il mister mi disse “ti hanno voluto tutti, ma non mi servi per il gioco che io ho in mente per la squadra”. Fu onesto e sincero. Giocai solo una partita di Coppa Italia e poi tornai ad Alghero in treno. Le due stagioni successive, seppur con alti e bassi, furono positive. Il centrocampo, composto da me, da Gallozzi e da Diomedi, era secondo me il migliore della categoria. In certe partite davamo spettacolo. Poi alla Torres, che nel frattempo era retrocessa, segnai anche, ma non mi interessava avere rivincite, facevo la mia strada. Tra i molti momenti belli vissuti negli anni ad Alghero mi piace ricordare una rovesciata da fuori area contro il Velletri che andò a infrangersi sull’incrocio dei pali. A me piaceva fare gesti acrobatici come la rovesciata e quella fu molto bella. Non segnai, ma fui applaudito anche dagli avversari e lo apprezzai tanto. Se vuoi ti racconto un altro aneddoto divertente di quando ero ad Alghero.

Assolutamente.

In Veneto mi chiamavano Gio, abbreviativo di Giorgio, con un accento particolare, cosa che non accadeva invece negli altri posti in cui ho abitato. Un giorno giocavamo ad Olbia e sentì alcune persone chiamare in dialetto veneto Gio. Così mi avvicinai. Erano del mio paese, erano lì per lavoro e prima di ritornare a casa erano venuti a vedermi giocare. Nel finale della partita sul punteggio di 0-0 capitò una punizione per noi e io andai per calciare. Sentì urlare “scommettemo?” Ricordando che da ragazzo scommettevo per gioco con i miei compagni a chi prendeva più traverse da fuori area, capì subito che dicevano a me. Così feci un gesto quasi per confermare e pur calciando con l’intenzione di segnare la palla colpì la traversa. Scommessa vinta anche se avrei preferito far gol e vincere la partita.

Da Alghero a Sansepolcro, come fu il passaggio e come furono le tre stagioni in bianconero?

All’inizio non fu facile perché come ti dicevo in Sardegna avevo la mia fidanzata e stare così lontani non era piacevole. Dopo i primi giorni di ritiro e le prime amichevoli, parlando con Renato, soprannominato da tutti “Molotov”, pur trovandomi bene a Sansepolcro dissi “vado via”. Lui andò a parlare con Gianfranco Belloni che dopo aver riferito ai dirigenti mi fece questa proposta: “ma se una volta al mese vai in Sardegna con il permesso di partire la domenica sera e di rientrare il giovedì potrebbe andarti bene?” Mi andava bene ed era soprattutto la dimostrazione che la società teneva a me. Non solo. Amo la musica e avevo portato con me i miei dischi “33 giri”, ma a Sansepolcro non avevo il giradischi. Me lo regalano e fu un altro gesto che apprezzai tantissimo. In camera mia la musica non poteva mancare e mi rendeva felice, così come fui felice i 3 anni al Borgo. Ho conosciuto tanta gente, sono stato apprezzato, ho molti amici con cui sono in contatto ancora oggi e poi in campo le cose andarono veramente alla grande.

Come si arrivò alla storica promozione in C2 del 1978-1979?

Il percorso vincente parti già il primo anno, con Magi allenatore e con in rosa tanti di quei giocatori che poi furono decisivi nella promozione, come Colavetta, Donato, Tricca, Facchin, Landi e Chiasserini, oltre tra gli altri, ai giovani Rossi, Becci, Barculli, Testerini, a Favero e Marchini che in quell’anno fu il nostro cannoniere. Ci piazzammo terzi, mentre la stagione seguente ci furono più alti e bassi e giungemmo noni. Nell’estate del 1978 arrivarono Giulianini e Magara, ma la svolta fu, senza nulla togliere a Magi, la presenza in panchina di mister Grassi, un secondo padre per noi. Lo rispettavamo e tenne unito il gruppo. La squadra era forte e con il passare delle settimane capimmo di poter vincere il campionato. All’andata perdemmo il derby con il Città di Castello, ma il successo ottenuto nel girone di ritorno grazie al gol di Magara rappresentò la spinta decisiva, assieme al risultato positivo ottenuto a Fermo. La nostra marcia fu formidabile e al fischio finale dell’ultima gara iniziò la festa. Che ricordi! In maglia bianconera mi sono tolto tante soddisfazioni, siglando qualche gol e facendo del mio meglio per il bene di una società a cui ero e sono legatissimo. È stato bello ritrovarsi a 40 anni da quel trionfo e ripercorrere con gli ex compagni i tanti momenti trascorsi insieme.

Ci racconti qualche aneddoto divertente relativo ai tuoi anni a Sansepolcro?

Ce ne sarebbero tanti in campo e fuori. Posso dirti di quella volta che in occasione di una Festa Bianconera mi ero travestito da donna e che “Molotov” mi dava scherzosamente noia diciamo così, oppure dei dialoghi con il presidente Cesari. Lui mi chiedeva “Come va?”, io rispondevo “bene”, lui “ma bene o bene bene?”, io “bene, bene” e lui ancora “bene, bene o bene, bene, bene?” Non te la faccio lunga, ma andavamo avanti un bel po’ di minuti così. Mi fa piacere ricordare anche quando tornai a Orvieto dove avevo giocato anni prima con l’Alghero e dove alcuni tifosi visto il mio essere alto e magro mi urlavano dagli spalti “agonia”, non una volta, ma tutta la gara. Io non me la presi e al fischio finale anzi andai a salutarli sorridendo. Quando tornai con il Sansepolcro ecco che sentì urlare ancora “agonia” e a fine partita mi aspettarono fuori per salutarmi e abbracciarmi. Fu molto bello!

Come mai lasciasti Sansepolcro?

Arrivò la proposta della Sangiovannese in Serie C, buona per me e per la società, così andai e anche in terra valdarnese trascorsi 3 anni molto belli. Al primo anno in panchina c’era Galeone, allenatore emergente che aveva una marcia in più a livello tattico. Appena arrivai mi disse che c’erano tanti giovani dotati di corsa e che io dovevo tenerli uniti a compatti in mezzo al campo. Fu una bella stagione, ci salvammo e giocammo anche bene. Ti racconto un aneddoto di Galeone se vuoi.

Certo…

Giocavamo a Grosseto e pareggiavamo 0-0, a 10 minuti dalla fine mi capitò una palla molto invitante con il portiere avversario a terra. Potevo fare un passo indietro, stoppare e segnare, visto che la porta era vuota, ma istintivamente decisi di provare una rovesciata che terminò di poco sopra la traversa. La gara finì 0-0 e quando rientravamo negli spogliatoi Galeone si avvicinò e mi disse. “Quel pallone era troppo bello e anche io avrei provato a far gol in rovesciata. Hai fatto bene”. Nella seconda stagione a Sangiovanni centrammo ancora la salvezza, nella terza purtroppo invece retrocedemmo. In porta c’era un giovanissimo Lorieri che poi giocò per tanti anni in Serie A”.

Finita l’avventura alla Sangiovannese cosa accadde?

Mi arrivarono delle richieste, ma cominciai a lavorare come artigiano e decisi di diminuire l’impegno con il calcio. Scesi di categoria e passai in Prima al Cavriglia, compagine in cui militai fino a 41 anni, divertendomi tantissimo. Ricordo le avvincenti sfide con Bibbienese, Monterchiese e Subbiano, i quarti di finale di Coppa Italia raggiunti in una stagione, la vittoria del campionato e i 6-7 anni trascorsi in Promozione.

Quali sono state secondo te le tue caratteristiche migliori e come valuti la tua storia calcistica?

Ero un giocatore dotato di tecnica e di fantasia e mi piaceva rischiare la giocata, fare sempre qualcosa che fosse bello e utile per la squadra. Interpretavo il calcio in modo forse più moderno di quanto non si facesse abitualmente in quel periodo, anche nel comprendere quei movimenti definiti poi “a zona”. Diciamo che il mio posto in campo non era così facile da trovare dato che non ero né un centravanti e né una mezzala. Per questo avevo una collocazione un po’ atipica per quel calcio, però credo di aver lasciato un bel ricordo nelle varie squadre in cui ho militato. Ho giocato assieme a calciatori forti come Diomedi ad esempio e come per citarne uno meno conosciuto Di Croce, attaccante della Sangiovannese che a causa di un brutto infortunio smise di giocare pur avendo grandi potenzialità. Sono soddisfatto di quello che ho fatto nella mia carriera e pur non avendo militato in Serie A o in Serie B ho vissuto tante belle esperienze.

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