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I mostaccioli di San Francesco

In questo periodo di festa l'associazione Le Centopelli ci porta alla scoperta di una ricetta dedicata al padre del Presepe

di Le Centopelli
27/12/2021
in Gastronomia consapevole
Lettura: 6 min.
I mostaccioli di San Francesco

a cura di Meri Torelli

I mostaccioli di San Francesco, sono dei biscotti con mosto, mandorle e miele, molto amati dal Santo. Questa settimana l’appuntamento  con la rubrica è dedicata a colui che  è considerato a tutti gli effetti il padre del Presepe. Quindi ricordarlo in questo periodo di festa ci sembra cosa giustissima, e farlo con un episodio ed una ricetta che fa riferimento alla sua vita ci fa veramente piacere.

Ringraziamo tantissimo le due artefici di questa ricetta: Donatella Zanchi per la ricerca e Loredana Chini per averla messa in pratica.

Francesco conobbe Jacopa de’ Settesoli durante il suo viaggio a Roma, nel 1210, lo aiutò a trovare alloggio a Roma. Diventarono amici e lui la chiamava affettuosamente frate Jacopa. In punto di morte Francesco dettò una lettera da inviare a Jacopa, voleva rivederla prima di morire e le chiese di potargli quei dolcetti che lei preparava per lui quando era a Roma e che lui tanto amava. Ma lei arrivò ad Assisi prima che la lettera venisse spedita, portando con se, proprio quei dolcetti che Francesco tanto desiderava prima di morire.

Ingredienti

  • 300 g di farina bianca
  • 250 g di mandorle pelate
  • 100 g di nocciole
  • 2 cucchiai di cannella in polvere
  • 200 g di zucchero
  • 100 g di miele
  • 1 bicchierino di  mosto
  • 50 ml di acqua tiepida

Preparazione

Tritare finemente le mandorle e le nocciole.

All’interno di una terrina mettere gli ingredienti formate un impasto.

Fate rassodare per 30 minuti e poi realizzate  dei bastoncini di circa 7/8 centimetri  di lunghezza. 

Cuocere a 150 gradi in forno statico per circa 15/20  minuti.

Ais Delegazione di Arezzo – Gruppo operativo Valtiberina Toscana consigliano

a cura di Antonella Greco

Cosa si beveva ai tempi di S. Francesco? Per rispondere a questa domanda occorre raccontare un po’ di storia. Senza andare troppo a ritroso, diciamo che con il trasferimento della capitale dell’Impero Romano a Bisanzio, la viticoltura iniziò il suo lento declino. Le dominazioni arabe poi contribuirono all’abbandono poiché come sappiamo il Corano è nemico dell’alcol. Certo non vietava la coltivazione delle viti, ma perché farlo se il loro prodotto era inutilizzabile? Solo grazie al contributo del Cristianesimo e degli ordini monastici, si preservarono alcuni vigneti. Il vino introdotto nella Liturgia, era la ragione valida per poter continuare a produrlo, tanto che abbazie e monasteri divennero dei veri e propri centri vitivinicoli. L’uva veniva generalmente pigiata con i piedi dal popolo con dei risultati nn completamente soddisfacenti. Mentre nei luoghi ecclesiastici o nelle tenute dei nobili, dove c’erano i torchi, le bucce venivano ben pressate estraendo maggior succo, colore e il tannino necessario per evitare l’ossidazione nel lungo termine. Il vino veniva conservato con le fecce sui lieviti, ma con l’arrivo della primavera e l’innalzamento delle temperature, iniziava ad alterarsi (ed aveva anche un minore valore economico). Il problema divenne ancora più grande quando alle anfore sigillate, si preferirono botti in legno con tappi avvolti nella stoffa, nn adatti ad evitare il contatto del liquido con l’aria. Il vino prodotto era un vino con una bassa gradazione alcolica ( e anche l’alcol è un antiossidante), allungato con acqua e aromatizzato con miele, zenzero, cardamomo, chiodi di garofano, fragole, lamponi, mirtilli e altro ancora (probabilmente per contrastare l’acido acetico).

Il cambiamento avvenne tra il 1200 e il 1300, periodo in cui si iniziò a separare le uve bianche da quelle rosse durante la vinificazione, a selezionare i vitigni e a far appassire le uve. In questo modo il vino nn necessitava più di essere allungato o aromatizzato, tanto che addirittura vennero vietate queste pratiche e si gettarono le basi per la viticoltura moderna. Di fatto il vino era la bevanda di tutti, veniva utilizzato in Chiesa e lo bevevano anche tutti i fedeli presenti, e nei i convivi era uno strumento per socializzare. Ai tempi nostri avrebbe la stessa funzione del caffè, per intenderci.

Quale vino scegliere per omaggiare questa preziosa ricetta? Scomoderemo per una volta il Guinnes dei Primati, per rubargli l’idea. Lo sapevate che il vino passito più antico al mondo viene dall’isola di Cipro? Ebbene si, e trae le sue origini addirittura nel 2000 a.C. Prende il nome dalla sua zona di produzione: “Grande Commendarie”, dove pochi anni prima che S. Francesco morisse, cioè nel 1210, i Cavalieri dell’Ordine di S. Giovanni costruirono il Castello Kolossi. Riccardo Cuor di Leone lo definì “il vino dei re e il re dei vini”. Si dice addirittura che da alcuni scavi, emerge che a Cipro si vendemmiasse fino a 5000 anni prima di Gesù.

Commendaria è prodotto con uve 70% Xinisteri (varietà bianca) e 30% Mavro (varietà rosso) entrambi autoctoni di Cipro ed in particolare dei Monti di Troodos. Le uve sono appassite a terra per 12/15 giorni e le viti sono allevate ad alberello a piede franco. Premitura soffice e fermentazione spontanea (senza aggiunta di lieviti), il vino rimane 3 anni in botti grandi di rovere. Il colore è bruno in virtù delle uve Mavro e il bouchet è composto da aroma di prugna, frutti rossi, cacao e tabacco, mentre le uve bianche di Xinisteri garantiscono una acidità che riporta ai tempi antichi.

Nunc est bibendum!

I consigli di Augusto Tocci

Senza nulla togliere alla bravura della Donatella e della Lory ritengo utile allegare a questo lavoro la ricetta che oltre 20 anni or sono pubblicai nel mio Tacuinum medievale. 

“Toy mele bulito e toy amandole ben peste, batille e mitige cannella e corteccia di melangola. Mele bulito  cum  amandole mitilo nel tritello né grasso né magro e sempre ben mena e impasta. Fane diti che volon esser cocti chon testo o forno”

Come si può vedere la proposta delle due carissime amiche differisce principalmente dall’utilizzo della farina bianca al posto del tritello che poi è praticamente un semolino e dalla mancanza della buccia della melangola che poi sarebbe quella dell’arancio.

Il mio racconto gastronomico è frutto di una accurata ricerca effettuata fra le scartoffie di un monastero, che per dovere di segretezzxa non posso nominare,  ma che ha visto sicuramente il passaggio del Santo.

Anche se si tratta di un italiano ancora un po’ arcaico è possibile capire su quale base si imposta questa ricetta che gli amici dell’Associazione LE CENTOPELLI hanno pensato bene ricordare dal momento che il Santo dimorò spesso nel Monastero di Montecasale.

Tags: gastronomia consapevoleLe Centopelli
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