Roberto Latini, il padrino per i 18 anni di Kilowatt

Tra letture e riscritture, una conversazione attorno al festival e non solo

Roberto Latini, Amleto + Die Fortinbrasmaschine. Foto di Fabio Lovino.

«Sii sereno. Il nostro spettacolo è finito. Questi nostri attori, come ti avevo detto, erano tutti spiriti e si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile […] Tutto si dissolverà. Come la scena priva di sostanza ora svanita, tutto svanirà senza lasciare traccia». Così Prospero, in quel capolavoro che è La Tempesta di William Shakespeare, allude a quel mondo del teatro di cui esso stesso fa parte essendone al contempo invenzione passiva e motore attivo e imprescindibile. Uno mondo fatto di illusioni, tanto sceniche quanto emotive, linguistiche e corporee. Eppure il teatro è lì, tangibile e percettibile, così come Kilowatt Ffestival che con questa edizione 2020, nonostante le difficoltà a livello nazionale e mondiale di cui questo indimenticabile anno è portatore, giunge al compimento della sua maggiore età ed è ancora più pronto e motivato a portare suoni, colori, emozioni provenienti dall’Italia e dal mondo nella sua Sansepolcro. Roberto Latini, attore, autore e regista di formazione romana e fama internazionale, ha ricevuto quest’anno l’onere e l’onore di esserne il padrino.

Roberto, come sta vivendo questa esperienza? Cosa pensa di questo festival e qual è il senso del suo esserne padrino?

Essere invitato in un’occasione come questa dà un senso dell’aspetto anagrafico e artistico: è passato tanto tempo, c’è stata una resistenza. Mi piace pensare che il festival sia una condivisione di cui io mi sono fatto garante, mentre il festival stesso è una cosa autonoma che arriva alla maggiore età. Siamo arrivati alla sua 18esima edizione, sono il padrino di un maggiorenne e quindi vuol dire che sono avanti anche io per avere un figlioccio! Soprattutto se consideriamo il momento storico e sociale, intellettuale, che ci pone domande sul contemporaneo. Quello che abbiamo condiviso con la direzione artistica nei ragionamenti che abbiamo fatto è stato, e sarà nel suo sviluppo, proprio rispetto al cosiddetto “teatro d’innovazione”, che ha un suo necessario riferimento alla tradizione: due verità che riescono a raccontarsi bugie l’una all’altra, innovazione e tradizione che convivono.

A proposito di questo momento storico, si può dire che il covid abbia modificato il rapporto del pubblico con le espressioni artistiche in generale, rendendo la fruibilità dello spettacolo un po’ più difficile, più limitata e forse più elitaria. Trova che questo abbia penalizzato e penalizzi il teatro in generale oppure no?

Credo che il teatro sia l’espressione di quello che siamo, quindi non ho un approccio rispetto ad esso di una persona che sale sul palco: mi viene da pensarmi come spettatore. Il primo impulso durante la quarantena non è stato il desiderio di andare sul palco, ma di tornare in platea: questo bisogno di stare intorno, non di fronte, ma in mezzo alle sensazioni. Personalmente ho cercato di rendere virtù questo vizio: il teatro è dove impariamo a stare in silenzio e a fare del silenzio, ad aggiungere alle immagini e di fronte a noi un’immaginazione. Questo somiglia molto allo stare attaccati alla finestra, come abbiamo fatto nel periodo di quarantena, come un teatro che abbiamo immaginato fuori, in un silenzio che è stato incredibile.

Crede che il festival di Kilowatt nello specifico subirà penalizzazioni o al contrario non cambierà nulla?

È tutto molto curioso. C’è voglia di essere parte di un’aggregazione e vincere la “distanza sociale”, un termine che hanno aggiunto al nostro vocabolario. Personalmente sono anche contento della tutela, non tanto alla persona quanto all’individuo, che poi è quello che compone il gruppo e questo in teatro si vede bene sul palcoscenico: scene di gruppo, fatti singoli o anche la platea stessa non sono percepiti come assembramento, ma come insieme di singoli. Lo spettacolo deve avere ogni volta la capacità di rivolgersi collettivamente ai singoli.

Divisi in più giornate, porterà sul palco 5 movimenti di breve durata: letture di testi che ruotano attorno al concetto di normalità. Il loro titolo è “NNORD. PARALIPOMENA E PARERGA”, dove chiaro è il riferimento al titolo invertito di Arthur Schopenhauer il cui significato letterale è proprio “raccolta di saggi su argomenti di vario genere”. Qual è la ragione di questa scelta? Vuole parlarci di questo titolo e delle letture a cui si riferisce?

Si tratta di una richiesta che ho fatto al Corso di perfezionamento in Drammaturgia Internazionale, dove sono stato docente: i ragazzi sono stati invitati da me a scrivere delle cose originali rispetto al concetto di normalità e sono molto curioso di leggerei loro testi di fronte a un pubblico, di fronte al quale cambieranno ulteriormente rispetto a come li ho letti io. Questo è sondabile e certo e sono curioso di vedere come l’ascolto sarà capace di trasformare questi scritti. Il titolo non è casuale, ha a che fare con quanto abbiamo tralasciato: c’era da aggiungere qualcosa. Il riferimento è alla capacità etimologica: evidente ma non sottolineato. Mi piace immaginare che queste letture siano delle appendici a qualcosa che abbiamo acquisito ma che probabilmente non è neanche vero.

L’opera protagonista che porterà al festival è Amleto + Die Fortinbrasmaschine. Si può parlare di riscrittura di una riscrittura? Quanto devi all’una e quanto all’altra opera e all’altro autore? Ti va di “raccontarci” qualcosa?

Sì, assolutamente. Si tratta di una riscrittura del Die Hamletmachine di Heiner Müller, a sua volta riscrittura dell’Amleto di William Shakespeare. Quello che ho fatto è pensare che quel testo ha compiuto 40 anni ormai: un testo che apparteneva al teatro di innovazione è diventato anch’esso tradizione, proprio quello che anche Pasolini ci ha raccontato rispetto all’essere figli e diventare padri. Questo ha a che fare con il mio essere padrino di Kilowatt: passando però attraverso una tragedia di orfani, di senza padri. Il padre di Amleto è stato ammazzato, così come quello di Fortebraccio, che è il suo alterego nel mondo. Insomma, questi padri non ci sono più e tocca ai figli fare la storia. Appena Amleto muore arriva Fortebraccio e appena Amleto dice che il resto è silenzio arriva lui chiedendo: “dov’è questo spettacolo”, “where is this sight?”, che traduciamo come “dov’è questa visione?” e quindi per estensione “dov’è questo spettacolo”. Questa è una domanda vicina a questo tempo, intorno alla quale viene costruita la prima parte dello spettacolo che la ripropone.

Una domanda, questa, che è anche un richiamo al rapporto con il pubblico, che può risvegliare l’attenzione dello spettatore?

Sì, rispetto al fatto che il teatro deve essere un’occasione per qualcos’altro, non per se stesso. Quello che cerco di fare io è non disturbare lo spettacolo, ma permettere allo spettatore di vedere al di là di quello che mostriamo noi. Ho rimesso le parole di Shakespeare dentro la struttura di Müller e mantenuto i cinque capitoli che Müller aveva ricavato facendo un po’ il verso ai 5 atti di Shakespeare: sono tornato a Shakespeare nella necessità di tornare indietro per andare avanti. Ho infatti intitolato lo spettacolo a Fortebraccio, quindi a quel qualcuno che è sempre Amleto, ma è l’altro Amleto a parer mio. Inoltre abbiamo dato il nome Fortebraccio teatro alla compagnia: un atto di coscienza.

Roberto Latini, Amleto + Die Fortinbrasmaschine. Foto di Fabio Lovino.

Qual è il suo rapporto con Shakespeare e qual è il senso di lavorare oggi attorno a Shakespeare?

Di molto bello in Shakespeare c’è, secondo me, la capacità che hanno i suoi testi di appartenere a una dimensione che sta appena prima della definizione, eppure diventando classici. Lo Shakespeare che leggiamo noi è già tradotto, già tradito dall’inglese, soprattutto per la capacità che ha il blank verse di fare il ritmo del respiro, cosa che noi non possiamo percepire in nessun modo tranne quando sentiamo lo spettacolo in inglese. È molto bello sentire la capacità che ha il testo di collegarsi alla respirazione: in qualche modo il teatro è della voce, ma molto più del senso fonetico del termine: possiamo dire che lo è in tutta quella partitura che non percepiamo invece. Questo è un territorio che frequento, che frequentiamo, è tutto nell’evidenza, nel corpo che ha bisogno di assumere posizioni fisiche specifiche per poter emettere suoni di quella qualità.

Qual è il suo rapporto con il palco in quanto attore?

La sensazione è sempre che sia un posto che è casa, ma lo è fino a che lo spettacolo finisce, cioè un posto in cui passano tanti spettacoli, tanti attori e tante immaginazioni: quello che mi piace pensare è che non sia mai disabitato, quindi un luogo a cui posso aggiungermi, in una capacità che deve andare oltre me, oltre noi. Il palco è come uno strumento, suona e risuona.

Potrebbe darci un’anteprima di quello che vedremo in questi molteplici spettacoli e rappresentazioni?

Bisogna lasciare andare più possibile e arrivare al festival da spettatori: quello che c’è sul palco cambia, trasforma, per molti migliora. Quello che più mi interessa è arrivare all’incontro pubblico, mettermi lì e sentire cosa hanno da dire tutti gli altri: quello che mi interessa molto è gli altri.

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