Tarek Komin, uno scrittore nello spazio

Il giovane di Sansepolcro prolifico autore di romanzi, racconti e poesie: nell'ultima raccolta l'introspezione si nasconde nella lontananza del cosmo, nella narrativa una divertente satira sociale sui borghi di provincia insieme all'accurata ricerca storica

Tarek Komin a Rapa Nui, l'Isola di Pasqua

Tarek Komin è nato a Sansepolcro nel 1984. Laureato in Studi storici demo-etno-antropologici all’Università di Siena, lavora come responsabile commerciale di un’azienda del territorio. Ma è anche e soprattutto un artista poliedrico: oltre allo studio del pianoforte al Conservatorio e a un recente interesse per le arti figurative, la sua principale passione è la letteratura, che ha saputo declinare in una prolifica produzione che comprende tre romanzi, Moon (2004), Emilio Seminci e i Giorni dell’Umanesimo (2015) e Hiroi Kata (2017), una raccolta di racconti, Il dedalo del sottosuolo (2012), e tre raccolte di poesie, Disperdersi (2010), Il nido delle tasche (2017) e Il primo poeta nello spazio (2019).

Cominciamo proprio da quest’ultima pubblicazione.

Si tratta di poesie a tema spaziale. Al settimo libro ho scelto di fare un testo organico, ho voluto lanciare una sfida a me stesso e al lettore, utilizzando anche un linguaggio particolare. Non vorrei dire “difficile”, perché oggi se c’è una parola che non si conosce basta avere voglia e si può cercare su internet. Quindi una sfida anche in questo senso, come dire: “Venitemi incontro”. Se le poesie sono ambientate nello spazio, in realtà è un libro molto personale, perché raccoglie gli ultimi due anni un po’ travagliati della mia esistenza: un incidente, un cambio di lavoro, lutti emotivi. Mi sono insomma nascosto in un ambiente che sembra lontano, lo spazio e il cosmo, ma che in realtà riguarda tutti. Mi pare che fosse Ovidio a dire che siamo gli unici esseri viventi che possono piegare il collo verso l’alto e godere della meraviglia del cosmo. Ce ne possiamo meravigliare, facciamolo!

L’ultimo libro di Tarek Komin

La raccolta è uscita di recente per Bertoni di Perugia.

Sì, è uscita il 31 ottobre, abbiamo fatto alcune presentazioni e avevo in programma di cominciare un book tour più ampio, però il Covid ci ha fermato. Ora proviamo a ricominciare, per esempio a fine agosto sarò al Deruta Book Fest, dove si parlerà di questo libro e del romanzo Hiroi Kata, anche questo edito da Bertoni. È un editore in grande crescita, organizza tantissimi eventi, e poi è un editore illuminato, perché è raro trovare chi pubblica poesia in modo così convinto e con una passione simile. Onestamente con questo libro non punto molto alle vendite: in realtà purtroppo pochi leggono poesie, spesso neanche chi le scrive! È stata più un’esigenza personale quella di usare l’arte in modo terapeutico, visto che il linguaggio poetico è quello più vicino all’anima, più immediato rispetto a un romanzo che ha tutto un lavoro di costruzione, organizzazione, struttura, e che dura anche più nel tempo. Mentre la poesia è un’immagine, un flash, anche se poi, certo, lavori sul linguaggio. Quindi, ad esempio, ho meno pretese rispetto a Hiroi Kata.

Torniamo all’inizio: quando hai cominciato a scrivere?

In realtà ho sempre scritto. Magari solo da pochi anni quando me lo chiedono mi definisco uno scrittore, forse perché ho superato i 30 anni, ho superato i sette libri pubblicati e ho raggiunto una maggiore consapevolezza. Però è una cosa che ho sempre fatto per esigenza personale, anche come semplice metodo per comunicare. Ho iniziato in età adolescenziale, forse fin dalle medie. Il primo romanzo l’ho scritto a 16 anni, anche se poi l’ho rivisto più avanti. Lo considero non bello, ovviamente, è stato un romanzo di formazione anche per me, una palestra. Se non avessi buttato fuori quelle pagine sporche, poco mature, legate a un periodo adolescenziale, non sarei arrivato a progredire con la scrittura, che è anche esercizio. Molti dicono che si dovrebbe scrivere sempre, tutti i giorni. Ritorno in avanti per fare un esempio su questo aspetto: durante il lockdown avevo un romanzo che era rimasto a metà. Lavorando prevalentemente da casa mi sono detto che avrei potuto approfittarne per scrivere, ma, soprattutto nel primo periodo, non ci riuscivo proprio. Ma avevo un’altra idea, e mi sono messo a scrivere un racconto. Era da tantissimo che provavo a scrivere qualcosa quasi senza pretese, e ho scritto questo racconto che si chiama L’uomo di Rapa Nui, una storia che mi era venuta in mente quando ero all’Isola di Pasqua. L’ho buttato giù, ogni mattina mi svegliavo presto, scrivevo, ed è venuto un racconto abbastanza lungo, non so se bello o brutto perché in realtà è molto simbolico, particolare, lo rileggerò più avanti. Però è stato utilissimo: mi ha sbloccato per l’ultimo romanzo che era a metà e così sono riuscito a finirlo. Perché avevo ripreso il via, la dimestichezza. Scrivere è una fatica pazzesca, ci devi stare sempre con la testa. Proprio per questo mi sono avvicinato anche all’arte figurativa, senza pretese, perché avevo bisogno di un’arte da praticare senza aspettative. Tutti, fin da piccolo, mi dicevano che facevo schifo a disegnare e allora per gioco ho scoperto che anche solo stendere un colore o fare una forma è in qualche modo per me funzionale: mi ha liberato per l’arte della scrittura. Che invece sta diventando un secondo lavoro, ho dei contatti sempre più importanti e devo produrre testi di un livello sempre maggiore, e ovviamente non è sempre facile. Ma non era facile neanche prima perché la scrittura è una psicanalisi, un grosso confronto con sé stessi. Butti via le cose, le rivedi, le lavi, le giostri. Ho amici scrittori che dicono che bisogna scrivere tutti i giorni per poi buttare via tutto. Io non sempre ci riesco però mi rendo conto che è molto utile.

Parlavamo di Moon, quel primo romanzo che hai definito “non bello”.

Diciamo “poco maturo”. A me non piace, ma spesso non mi piace neanche l’ultima cosa che scrivo. Già il giorno dopo dico che avrei potuto fare meglio, e quando l’editore lo stampa è finita. Si cambia sempre, cambi gusti, cambi letture – la lettura è la più grande palestra della scrittura – cambi tu, fai nuove esperienze, non ti riconosci in quello che hai scritto, o comunque ti ci riconosci meno, è un’evoluzione e può anche essere bello. Il lato affascinante è che quello che scrivi è una fotografia di quel periodo, certi tic verbali, certi vezzi che hai perso, certe ripetizioni, certi aneddoti che celi. Un aspetto divertente della scrittura, perché non è solo fatica, per me è anche quello di nascondere piccoli episodi che sono capitati a me o ad altri, magari persone vicine, così che il lettore mio amico possa dire: questo mi ricorda questa cosa. E c’è una sorta di empatia inconscia, se così si può dire.

Quali sono i tuoi lavori che più ti soddisfano?

Tranne forse il primo lavoro, le cose che mi soddisfano ci sono, a partire da Emilio Seminci, il romanzo che forse ha avuto una maggiore eco, magari per gli argomenti trattati, l’ironia, la leggerezza. Mi piace molto, poi l’ho presentato talmente tante volte e in tanti modi diversi che mi ci sono affezionato: è stato divertente creare scenografie nuove, fare nuovi book trailer. È stato coinvolgente anche dal punto di vista dei personaggi. Mi piace perché è leggero, ma apprezzo molto anche Hiroi Kata, perché ha un taglio molto attuale, e anche Il primo poeta nello spazio, ancora posso dire che mi piace!

Con Emilio e Hiroi Kata hai saputo costruire due romanzi che sono radicalmente differenti in tutto: ambientazione, personaggi, intreccio, stile.

Quello è stato stimolante principalmente per me. Dopo il relativo successo di Emilio Seminci tanti mi chiedevano di scriverne un seguito, e in effetti avevo in mente uno spin off. Sarebbe stato facile tornare a giocare su quell’ambientazione peculiare, avrei avuto forse gli stessi lettori, forse qualcosa di più, avrei rivenduto magari ancora di più il primo, però mi diverte sperimentare, fare cose diverse. Anche perché si cambia, come dicevo. In Emilio gestivo una trentina e anche più personaggi come se fossi un burattinaio, con tutte le complicazioni dell’organizzazione di una struttura così corposa. In Hiroi Kata ci sono meno personaggi e ho voluto spostare la difficoltà su un altro piano, spezzettando la vicenda nel tempo. Questo mi ha messo di fronte a un’altra sfida, quella di andare a rifare ricerca storica, ed è stato bello, perché mi ha riportato un po’ ai tempi dell’università. Quindi si è trattato di affrontare da vari punti di vista un periodo vasto e intenso come quello della guerra fredda. Soprattutto l’ultima parte, quella degli anni ottanta, con i suoi inasprimenti. Ed è stato interessante anche dal punto di vista della ricerca musicale, certi ascolti che ho nascosto dentro. Ecco un po’ il ponte fra i due romanzi, la similitudine, questa volontà di non cercare mai lavori leggeri. Alla fine si deve sempre faticare, secondo me, nascondendo magari questa fatica al lettore.

Invece per scrivere quel vero capolavoro di satira sociale e antropologica che è Emilio, ambientato in un paese di provincia come può essere Sansepolcro, avevi potuto fare maggiore affidamento sull’esperienza personale.

Sicuramente questo da un lato è più facile, dall’altro devi stare anche attento a non offendere nessuno. Anche se io in realtà ho cercato di offendere più persone possibile. A parte gli scherzi è effettivamente più facile, e molti editor non a caso dicono che devi parlare di ciò che conosci e sai, o almeno per cui hai passione. Se non sai una cosa la devi studiare talmente bene da fare in modo che alla fine sia tua, ti appartenga. Per esempio si parlava di Moon, con tutti i suoi limiti. In una scena dovevo descrivere di un’anziana che intrecciava il vimini. Era una situazione proprio marginale, solo una scenografia muta ai lati della vicenda principale. Però io non avevo idea di come si intrecciasse il vimini, e allora per capire i movimenti delle mani ho letto un sacco di roba. Poi non ho scritto niente, ho scritto una frase del tipo “una vecchina intrecciava il vimini”, però dentro la mia testa avevo quell’immagine, quei movimenti delle mani, e questo nella scrittura è fondamentale. Ed è un altro lato divertente, quello della ricerca. Certo ci vuole tempo, però adesso ci sono tutti gli strumenti per poterlo fare, con la giusta passione.

E per il futuro? In programma l’uscita del romanzo completato durante l’emergenza coronavirus?

In realtà ho due romanzi inediti, oltre questo anche un altro che ho finito di scrivere un anno e mezzo fa e sono in fase di editing. Sono altre due belle sfide di cui spero avremo presto occasione di parlare.

Exit mobile version