Mussolini ultimo atto

La cronaca di cinque giorni che cambiarono l'Italia e che nascondono aspetti ancora non del tutto chiariti

Mussolini il 25 aprile 1945 a Milano

Quello che accadde tra Milano, Dongo e Giulino di Mezzegra è raccontato dalla storiografia ufficiale ed è descritto in modo perfetto, e negli esatti luoghi, nel film di Carlo Lizzani del 1974 Mussolini ultimo atto. Allo stesso tempo però la vicenda è oggetto di congetture e supposizioni tendenti a disegnare una verità diversa sulle ultime ore di vita di Benito Mussolini, Claretta Petacci e alcuni dei gerarchi della Repubblica Sociale Italiana. A 76 anni di distanza TeverePost ricostruisce quei complicati cinque giorni fatti di sogni, speranze, vendette, fughe e tradimenti.

Il 25 aprile 1945

Nel pomeriggio del giorno che diventerà la Festa della Liberazione, presso l’arcivescovado di Milano, avviene un incontro tra Mussolini e il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, che si poneva l’obiettivo di mediare tra le parti in conflitto ed evitare un bagno di sangue. Alla riunione prendono parte anche rappresentanti del CLN. Lo stesso giorno viene proclamata l’insurrezione generale contro il nemico tedesco e contro i membri della Repubblica Sociale Italiana. All’oscuro di Mussolini i tedeschi trattano la resa con i partigiani. L’esercito di Hitler lascerà l’Italia senza continuare la guerra e gli verrà permesso di ritirarsi senza scontri. Mussolini scopre questo direttamente dalla bocca dei membri del CLN che gli offrono l’assicurazione che non sarà giustiziato se lui e i suoi uomini si arrenderanno senza condizioni. Sorpreso dal tradimento tedesco Mussolini prende un’ora di tempo e si ritira nella Prefettura di Milano, quartiere generale dei fascisti da quando il governo ha lasciato Salò. In Prefettura il clima è rovente, con alcuni che propongono di trasformare Milano in un luogo di resistenza modello Stalingrado, altri di arrendersi e molti, tra cui il segretario del Partito Fascista Alessandro Pavolini, di asserragliarsi in Valtellina nel Ridotto Alpino Repubblicano: un tentativo di resistenza estrema dal quale aprire una trattativa con gli alleati. In Valtellina erano già presenti migliaia di uomini pronti alla difesa, favorita anche dall’orografia del territorio.

Il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster

Mussolini, incerto se ascoltare i sostenitori del Ridotto Alpino Repubblicano o se cercare una fuga personale in Svizzera, ordina di fare “precampo a Como”, dove tutti si trasferiscono nel tardo pomeriggio del 25 aprile. Saputo dal cardinale Schuster che Mussolini è scappato, il CLN ordina l’insurrezione e revoca l’accordo con Mussolini, di fatto condannandolo a morte.

A Como si susseguono riunioni con nuove divisioni di strategia da parte del gruppo di Mussolini. C’è chi vuole tornare a Milano, chi sostiene di predisporre difese a Como in attesa di arrendersi agli americani o inglesi e chi insiste con l’idea della Valtellina. Non si è mai compreso se esistesse un piano di fuga del Duce verso la Svizzera, anche se la sua attenzione su come tentare di raggiungerla, da solo o assieme alla Petacci, fu più volte accertata. Un’ipotesi mai verificata è anche quella di un accordo con i servizi segreti inglesi che avrebbero potuto mettere in salvo Mussolini in cambio di materiali compromettenti su Churchill in mano al capo del Fascismo.

26 aprile, le tergiversazioni

Alle 3.00 di notte, compresa l’impossibilità di restare a Como e indicato alla moglie Rachele e ai propri figli di tentare di entrare in Svizzera dal confine di Chiasso, il gruppo Mussolini, assieme ad un’indesiderata scorta tedesca che aveva il compito di sorvegliarlo, si muove alla volta di Menaggio, dove arriverà alle prime luci dell’alba. Anche la scelta di percorrere la sponda occidentale del lago di Como invece di quella orientale, più protetta, era stata oggetto di discussioni tra i gerarchi. A Menaggio oltre ad un breve riposo continuano le febbrili riunioni su come muoversi. Nel frattempo nella cittadina lacustre proseguono gli arrivi di membri del governo repubblicano e di tedeschi in ritirata.

All’improvviso, cercando di eludere la sorveglianza tedesca, Mussolini lascia Menaggio e risalendo le montagne sovrastanti si dirige verso Porlezza, nei pressi del confine italo-svizzero sul lago di Lugano. A Cardano, vicino a Grandola, in una caserma della milizia confinaria la giornata passa nell’indecisione se forzare il confine elvetico o proseguire verso la Valtellina, e comunque in attesa di notizie sul mutare della situazione. Nel corso della giornata sia i tedeschi che altri gerarchi salgono alla caserma di Cardano. Perfino Claretta Petacci raggiunge Mussolini. Da Milano arrivano notizie non incoraggianti e comincia a prevalere la rassegnazione. Alcuni decidono di tentare di entrare in Svizzera di forza ma vengono catturati dai partigiani che prevedevano questa mossa e sorvegliavano il confine. Consapevole di potersi difendere meglio a Menaggio, il gruppo torna indietro perdendo di fatto una giornata intera che si rivelerà decisiva, visto che i partigiani nel frattempo stavano scendendo dalle montagne per occupare i paesi lungo il lago.

Claretta Petacci

27 aprile, la cattura

Si stabilisce di unirsi ad una colonna tedesca diretta in Alto Adige attraverso la Valtellina e arrivata nei pressi di Menaggio durante la notte. Si trattava di circa 200 soldati e trentotto autocarri della FlaK, la contaerea tedesca che si sta ritirando dall’Italia. I fascisti pensano che unendosi agli ex alleati sarà più semplice attraversare un territorio con presenti forze partigiane. Sbagliano, perché i fatti dimostreranno che i tedeschi non avevano nessuna intenzione di combattere o di proteggere gli italiani.

Alle cinque del mattino la colonna lunga circa un chilometro lascia Menaggio e un’ora dopo, tra Musso e Dongo, viene bloccata da un gruppo di partigiani. Circa dieci, pure male armati, appartenenti alla 52esima brigata Garibaldi “Luigi Clerici” sono in grado di tenere bloccato per mezza giornata un gruppo di circa 300 uomini armati tra tedeschi e italiani. I partigiani, in grado di sembrare un gruppo più nutrito di quanti sia in realtà, trattano il passaggio del convoglio con il tenente Hans Fallmeyer che permette la perquisizione dei propri veicoli. Gli accompagnatori tedeschi offrono a Mussolini l’opportunità di travestirsi da soldato della FlaK e di nascondersi in uno dei camion. Gli altri italiani vengono abbandonati a sé stessi e si devono arrendere ai partigiani dopo una breve sparatoria. Non ha miglior sorte Mussolini, che attorno alle 16.00 del 27 aprile viene riconosciuto e arrestato al posto di blocco nella piazza di Dongo. Durante le lunghe ore di attesa alcuni dei fascisti cercano l’aiuto delle famiglie e del parroco di Musso offrendo cospicui compensi economici. Sembrerebbe però che proprio il prelato avesse fatto arrivare ai partigiani la notizia che nel gruppo erano presenti molti gerarchi fascisti e addirittura il Duce.

Mussolini viene inizialmente trattenuto all’interno del municipio di Dongo per poi essere trasferito assieme ad altri prigionieri nella località di Germasino, in una piccola caserma della Guardia di Finanza, lontano dalle principali vie di comunicazione. Gli altri componenti del governo repubblicano vengono custoditi in municipio, nella caserma dei Carabinieri e in numerose case private di Dongo. Denari, preziosi, fedi nuziali e altre cose di valore vengono sequestrate dai partigiani assieme ai carteggi contenuti nella borsa di Mussolini. Claretta Petacci chiederà al comandante partigiano “Pedro”, al secolo Pier Luigi Bellini delle Stelle, di poter stare vicino a Mussolini. Sarà accontentata più tardi, quando verrà presa la decisione di trasferire il Duce e la Petacci in un altro luogo per timore che fascisti o agenti stranieri possano tentare di liberarlo. La detenzione per Mussolini è paradossalmente una momentanea serenità. I partigiani che lo hanno in custodia lo descriveranno come desideroso di confrontarsi su temi politici e militari con i propri carcerieri. Scrive anche una dichiarazione dove afferma di essere stato trattato bene da coloro che lo avevano arrestato.

La casa della famiglia De Maria

28 aprile, la morte di Mussolini e dei gerarchi fascisti

Durante la notte Mussolini, con il capo bendato per renderlo irriconoscibile, si ricongiunge con l’amante e i due vengono portati verso Como. L’intenzione è raggiungere la sponda orientale del lago, ma l’avanzata degli anglo-americani e una situazione di anarchia lungo le strade costringe i partigiani a fermarsi nel piccolo paese di Bonzanigo, dove la coppia Mussolini-Petacci viene fatta alloggiare in casa della famiglia De Maria, collaboratori dei partigiani. Lì rimangono in custodia di due sorveglianti e possono riposare fino al mattino.

Il cancello di Villa Belmonte, dove fu giustiziato Mussolini

Già nel tardo pomeriggio del giorno 27 la notizia della cattura di Mussolini e del governo repubblicano è arrivata sia al CLN che al governo di Roma. Quest’ultimo ne reclama la consegna visti gli accordi presi con gli alleati anglo-americani. I partigiani che operano sul lago di Como non sono favorevoli ad uccidere Mussolini e i gerarchi, mentre il CLN vuole far rispettare la decisione di giustiziare chi non si arrende, oltre a temere che Mussolini in mano agli alleati possa trovare il modo di avere salva la vita. La mattina del 28 aprile un gruppo di partigiani guidati da Walter Audisio – il “colonnello Valerio” – e Aldo Lampredi detto “Guido” parte da Milano con l’obiettivo di uccidere Mussolini e quindici gerarchi fascisti, numero pari a quello dei partigiani trucidati il 20 agosto del 1944 a Piazzale Loreto.

Il viaggio non è affatto semplice, complicato dai numerosi posti di blocco messi in piedi dai vari gruppi partigiani. A Dongo trovano “Pedro” riluttante ad avallare la condanna a morte di Mussolini. Il comandante partigiano indica dov’è nascosto Mussolini solo perché ordinatogli da un superiore. A questo punto Valerio, Guido e Michele Moretti detto “Pietro”, quest’ultimo commissario politico della brigata partigiana guidata da “Pedro”, partono per Bonzanigo con il preciso obiettivo di giustiziare Mussolini. Arrivati a casa De Maria, siamo al pomeriggio del 28 aprile, il Duce e la Petacci vengono prelevati con la scusa di un trasferimento e fatti sedere sul sedile posteriore di un’auto. Non lontano dal luogo dove hanno dormito vengono fatti scendere dalla macchina nei pressi dell’ingresso di Villa Belmonte in via XXIV Maggio a Giulino di Mezzegra. Lì Guido e Pietro bloccano la strada mentre Valerio pronuncia la frase “per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. Seguono momenti convulsi, dato che il mitra di Valerio si inceppa e la Petacci cerca di mettersi tra chi spara e Mussolini. Anche la pistola di Guido fa cilecca e la sentenza viene eseguita con il mitra di Pietro, con la Petacci colpita a morte mentre continua a fare tutto il possibile per salvare il suo amato.

Walter Audisio (“Valerio”)

Nel frattempo i gerarchi fascisti sono radunati a Dongo, dove i piani prevedono la fucilazione degli esponenti più in vista della Repubblica Sociale, a cui si aggiungerà il fratello di Claretta Petacci che si spacciava per un diplomatico spagnolo. Moriranno circa un’ora e mezza dopo Mussolini, non senza qualche polemica per il modo approssimativo in cui viene formata la lista di coloro che saranno destinati a morire. La fucilazione avverrà nel lungolago e tuttora oggi nella balaustra in ferro è possibile osservare i fori dei proiettili.

29 aprile, Piazzale Loreto e i dubbi irrisolti

Tutte le fonti storiche concordano su come si siano svolti i fatti, almeno tra il 25 e il 27 aprile. Attorno alla giornata del 28 e alle modalità di morte di Mussolini permangono alcuni dubbi non del tutto chiariti. Uno di questi è che il Duce sia in realtà morto al mattino sempre per mano partigiana o addirittura ucciso da un commando inglese che aveva il compito di cancellare le testimonianze dei rapporti tra Mussolini e Churchill, dei quali era a perfetta conoscenza anche la Petacci. Anche i referti dell’autopsia a cui fu sottoposta la salma di Mussolini non chiarisce l’orario della morte. Alcuni storici e giornalisti ritengono che l’esecuzione davanti a Villa Belmonte fosse una simulazione destinata a coprire quella reale avvenuta al mattino. La cosa non sarà mai chiarita sebbene le versioni di tutti i protagonisti della vicenda concordino con quella che è considerata la versione ufficiale. Caricati su un camion, i cadaveri del Duce, della sua amante e dei gerarchi di Salò fucilati sul lungolago di Dongo furono poi trasferiti a Milano e scaricati a Piazzale Loreto dove il 29 aprile mattina vennero esposti a testa in giù dalla pensilina di un distributore di benzina e dileggiati per alcune ore. Nella furia di quella mattinata venne catturato e fucilato anche l’ex segretario del partito fascista Achille Starace che da alcuni anni non ricopriva alcun incarico e stava facendo tranquillamente esercizi ginnici per le strade di Milano. Da tempo caduto in disgrazia, Starace sembrò vivere le ore della cattura, del veloce processo e dell’esecuzione come una sorta di riabilitazione e non mancò di inneggiare al Fascismo al momento della morte.

I corpi di Mussolini, Petacci e alcuni gerarchi appesi a Piazzale Loreto

Dopo lo spostamento dei corpi da Piazzale Loreto venne eseguita l’autopsia sul cadavere di Mussolini, con la misteriosa assenza di cibo nello stomaco del Duce che alimenta la teoria della morte nella mattina del 28 aprile. L’orario ufficiale della morte sarebbe comunque compatibile con una digestione avvenuta a seguito di un pasto leggero. Il corpo di Mussolini ebbe un calvario lungo dodici anni tra sepolture anonime, furto della salma, ricomparsa in una certosa ed infine la sepoltura a Predappio nella tomba di famiglia nel 1957, quando Presidente del Consiglio era il democristiano Adone Zoli, anche lui originario di Predappio e sepolto a pochi metri dalla Cripta Mussolini.

La tomba di Mussolini a Predappio. Foto di Sailko (CC BY 3.0)
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