Nino Ferrer: l’antropologo prestato alla musica che abbiamo dimenticato troppo presto

In un'epoca in cui tutti si prendono sul serio sarebbe utile riscoprire la sua leggerezza di fine intellettuale. Anche solo per scusarci di averlo ridotto all'ennesimo stereotipo di turbolento e depresso schiacciato dal suo stesso talento

Nino Ferrer e Raffaella Carrà nel 1970 durante la trasmissione “Io, Agata e tu”

Ho 48 anni, sono più rovinato e arcigno che mai, ma soddisfatto del mio destino perché mi piace di più correre dietro a chimere che mi scaldano il cuore, piuttosto che sedere su un derisorio mucchio di soldi”.

Con queste parole Agostino Ferrari, in arte Nino Ferrer, torna a calcare il palcoscenico al Bobino di Parigi nel 1982, dopo un lungo ritiro dalle scene che lo aveva visto dedicarsi alla pittura e alla sua nota collezione di pipe, ancora oggi esposta in una sala dedicata della Mediateca di Montcuq. È così che mi piace cominciare questa storia. Con questo episodio che fotografa alla perfezione il personaggio. Appassionato come intellettuale, eclettico come artista, tormentato come uomo. Perché mai come in questa storia l’aspetto esistenziale si mescola con quello artistico.

Ma facciamo qualche passo indietro. Nino Ferrer nasce a Genova nel 1934 da padre italiano e madre francese. Trascorre l’infanzia in Nuova Caledonia per poi fare ritorno in Liguria e, successivamente, trasferirsi a Parigi per intraprendere con successo gli studi letterari alla Sorbona. Specializzatosi in etnologia e antropologia, fu allievo del grande André Leroi-Gourhan. I suoi studi furono incentrati sullo studio delle religioni e sulla vita quotidiana delle popolazioni primitive presso il Musée de l’Homme di Parigi. Per alcuni anni ha tenuto conferenze sia in Francia che in Spagna proprio su questi argomenti. Sposa completamente il mito del bon savauge di Rousseau e si convince che soltanto l’uomo primigenio abbia potuto conoscere una fuggevole ma autentica forma di felicità. A pensarci bene, in questo concetto c’è molto, moltissimo del suo approccio alla musica a cui, tra l’altro, non ha mai finito di applicare il metodo della ricerca.

Nino Ferrer con la madre Mounette. Foto di P. Ferrari

Già in quegli anni comincia a manifestare la sua proverbiale curiosità verso ogni forma d’arte. Inizia qui il suo complesso rapporto con la pittura che coltiverà fino alla morte. Allo stesso tempo, recita nella Les Théophiliens, la compagnia teatrale dello Stabilie della Sorbona e si esibisce suonando jazz nei locali parigini, entrando nella band di Richard Bennett, Nancy Holloway e Bill Coleman. Con Richard Bennett fonda anche un gruppo di cui sarà il bassista con lo psaudonimo Dixie Cats. Di quella Parigi lontana, oltre a un certo imprinting artistico e culturale, gli resterà per sempre cucito addosso quell’inconfondibile eleganza bohémien che esprimeva nei gesti, nel look, nel tono della voce.

Alla fine di quel decennio Nino resta infatuato dal rhythm’n’blues. Cominciano così a delinearsi le caratteristiche di un artista dall’eclettismo che io definisco estremo. Estremo perché riesce a passare da un genere all’altro con una facilità impressionante – e questo aspetto si evidenzierà sempre di più nel corso della sua carriera. Estremo perché, purtroppo, non gli porterà una gran fortuna a livello di popolarità. Chi, oltre a lui, avrebbe mai potuto mettere insieme l’eleganza del cantautore parigino con la grinta e l’anima del nero americano? Insomma, non è esattamente tutto un affare di razza e color, come recita il verso del suo brano più iconico.

Nel 1962 debutta all’Olympia: da quel momento inizia per lui una popolarità che di lì a poco lo avrebbe riportato in Italia, dove comincia riproponendo gran parte del suo repertorio francese tradotto e riadattato. È stato per questo non a caso da molti definito un passeur. Il passeur è chi, in Francia o verso la Francia, aiuta i clandestini a varcare il confine. Nino Ferrer viene definito un passeur della musica per aver innestato il germe del soul, del blues e della musica colta nel pop leggero italiano e francese degli anni ’60.

Trovo che quella di passeur sia una definizione perfettamente calzante. Peccato che in pochi, al tempo, si siano resi conto dell’importanza del suo ruolo di traghettatore in ambito musicale. Tutti troppo impegnati a incasellare e circoscrivere la musica – come tutto il resto – in rigide categorie. Nino nasce a Genova, ma non ha niente a che fare con la Scuola di. Incide in Francia, ma non è certo uno chansonnier. È italiano per i francesi e francese per gli italiani. Non ascrivibile alla categoria dei cantautori, almeno non nell’accezione del cantautorato dell’epoca. Troppo raffinato per le canzonette, ma considerato troppo leggero per la musica più colta. Non è un urlatore. Non scimmiotta i successi d’oltroceano. Per i francesi sarà sempre Monsieur Le Telephone. Per gli italiani l’interprete di La pelle nera, Agata, Viva la campagna.

In Italia Ferrer torna a metà degli anni ‘60, dopo aver trionfato in Francia con pezzi come Gaston, y a l’telephone qui son, Z’avez pas vu Mirza, Les cornichons. Uno dei suoi pezzi più intensi e famosi, C’est irréparable, sarà interpretata in italiano da Mina con il titolo Un anno d’amore. La stessa canzone farà poi parte – in versione spagnola – della colonna sonora del capolavoro di Pedro Almodóvar Tacchi a spillo (nella meravigliosa scena in cui Miguel Bosè la interpreta vestito da donna) e – nella sua versione originale – di The Dreamers di Bernardo Bertolucci.

L’Italia accoglie inizialmente con entusiasmo la sua grinta, la sua energia e quello che viene definito un imprevedibile e inaspettato talento. Scala le classifiche con Donna Rosa, sigla del programma Settevoci scritta da Pippo Baudo. Fa il record di ascolti con il programma Io, Agata e tu, condotto insieme a Raffaella Carrà e Nino Taranto. Incide le sue canzoni più note e popolari, quasi sempre inserite in album di grande valore artistico [su tutti, in quegli anni, Nino Ferrer, Agostino Ferrari in arte Nino Ferrer e Rats and Rolls] che vengono però ignorati dal pubblico. Nino Ferrer resterà sempre, sia in Italia che in Francia, un artista da 45 giri. Anche all’apice del suo successo.

Nino Ferrer con Raffaella Carrà durante lo show Io, Agata e tu (Roma, 1970). Foto di Dario Bali

Quelli sono anche gli anni delle sue partecipazioni al Festival di Sanremo. Nel 1968 con Il Re d’Inghilterra in accoppiata con Pilade; nel 1970 con Re di cuori, in accoppiata con Caterina Caselli; nel 1971 con Amsterdam, in accoppiata con Rosanna Fratello. Due mancate classificazioni e un quattordicesimo posto che segnano l’inizio della fine. All’inizio degli anni ’70, infatti, l’artista decide di ritirarsi dalle scene e di tornare in Francia. Infastidito dal troppo successo. Deluso dallo scarso successo. Due facce della stessa medaglia che rappresenta il filo rosso della sua vita artistica. La maledizione del troppo talento.

I miei successi degli anni 60 mi pesano come il piombo, dichiarerà in un’intervista poco prima della morte. Ad analizzare la sua carriera, col senno di poi, viene in effetti da pensare a quei successi come all’anticamera di altrettanti insuccessi. Mistificato, più che travisato, Nino Ferrer paga una dimensione artistica troppo indipendente. Ma imprescindibile per uno che non ha mai sbandierato la libertà in canzoni finto-impegnate, ma che la libertà l’ha sempre praticata.

In tutto questo, ricordiamo anche i suoi ruoli da attore. Nel 1964 insterpreta il ruolo di Andersen in due film girati in Francia da Guy Lefranc e Raoul André incentrati sulle avventure dell’agente segreto Jeff Gordon, impersonato da Eddie Constantine. Nel 1970 interpreta Serge ne L’età selvaggia di Marcel Camus e nel 1982 il medico Steve Julien nel film Litan diretto da Jean-Pierre Mocky.

Fino al 1977 resta a Parigi e si occupa di pittura, composizione, produzione, registrazione e mixaggio. Nel 1975, lontano dalla ribalta e da quei rotocalchi che più volte ne avevano minato la riservatezza ai tempi della love-story con Brigitte Bardot, incide il suo capolavoro Le Sud, la canzone che chiude il cerchio con i suoi studi antropologici, dove canta proprio quel mondo governato e inquinato dal business e dalla popolarità a tutti i costi e dove individua un’unica via di fuga: il ritorno alla natura. Nel bel tempo che dura milioni di anni in più / e non finisce più.

Nel 1975 in pausa durante una tournée in Italia. Foto di Kinou

Nel 1977 si trasferisce nella sua tenuta in campagna, nei pressi di Montcuq. Si dedica alla pittura, alle sue pipe e a comporre. Rare le apparizioni televisive da allora in poi, sia in Francia che in Italia, dove torna per registrare la raccolta di vecchi brani riarrangiati Che fine ha fatto Nino Ferrer e per partecipare a trasmissioni dedicate al revival [Roxybar e Una rotonda sul mare]. Nel 1986 viene nominato Cavaliere delle Arti e delle Lettere.

Il 13 agosto del 1998 si spara nel petto in mezzo a un campo di grano. E ci lascia così, senza averlo mai metabolizzato e forse nemmeno mai capito del tutto. Cristallizzato in poche canzonette, per i più. Nelle cover di quei 45 giri da cui ha sempre provato a uscire per trovare un più ampio respiro, ma che lo hanno sempre intrappolato.

E dire che abbiamo sempre avuto – oggi più che mai – bisogno di Nino Ferrer. In un’epoca in cui tutti si prendono tanto sul serio, la leggerezza e l’ironia nell’approcciarsi alla canzonetta che soltanto un fine intellettuale riesce ad avere, sarebbe salvifica. Les Cornichons e Mirza, per esempio, vengono ancora utilizzate nei corsi di studi di Lingue e Letterature Straniere per insegnare i nomi di alimenti in francese. Giochi di parole, canzoni divertenti e popolari che però rivelano una continua ricerca [Mi ispiro ascoltando con attenzione le frasi che sento per strada e al bar, rivela lui stesso] e una grande forza espressiva. Uno studio, un approfondimento e un’interpretazione mai banali, pur nella leggerezza. E, soprattutto, sempre qualcosa da dire.

Qui invece non resta da dire altro, se non che Nino ha regalato tanto sapere, tanta passione e tanta ironia a una società che non era pronta [lo sarà mai?]. Sarebbe bello e utile poterlo riscoprire, anche solo per scusarci di averlo ridotto all’ennesimo stereotipo di turbolento, depresso e suicida schiacciato dal suo stesso, troppo talento.

[Tutte le foto sono in pubblico dominio perché scattate in Italia da oltre venti anni. In maggioranza provengono dal sito ufficiale nino-ferrer.com]

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