Nella primavera del 1999 la Nato attaccò la Repubblica Federale di Jugoslavia. Settantotto giorni di bombardamenti con in gioco il destino della regione del Kosovo e il futuro politico della leadership di Belgrado. L’ultima guerra del XX secolo in Europa è spesso richiamata da chi analizza quello che sta succedendo tra Russia e Ucraina. Le dinamiche precedenti a quei fatti, il conflitto e le conseguenze successive, tra le quali l’indipendenza del Kosovo, è davvero connessa con la questione ucraina? La risposta è complessa e legata ad alcune similitudini tra i due episodi rievocate spesso nella narrativa di Mosca. A ventitré anni di distanza, quello che successe sopra i cieli serbo-montenegrini è ancora argomento di feroce dibattito e non ha mai visto la Serbia, erede politica di quella Jugoslavia, accettarne l’esito.
Kosovo e fine della Jugoslavia socialista
La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia era composta da otto entità: sei Repubbliche e due province autonome all’interno della Repubblica più vasta. Con il crollo dei paesi comunisti dell’Europa orientale anche la Jugoslavia si avviò verso la fine del monopolio politico della Lega dei comunisti jugoslavi. Alle prime elezioni multipartitiche del 1990 in Slovenia e Croazia vinsero partiti nazionali che portarono i due Paesi ad una dichiarazione di indipendenza nel giugno del 1991. Nello stesso anno fece lo stesso passo la Macedonia, mentre l’anno successivo si aggiunse la Bosnia-Erzegovina. Serbia, con al proprio interno le province autonome Vojvodina e Kosovo, e Montenegro diedero vita ad una nuova Federazione Jugoslava nell’aprile del 1992. Dopo la dichiarazione di indipendenza slovena scoppiò una breve guerra tra la JNA, l’esercito jugoslavo, e la repubblica ribelle. Alle intenzioni dei generali di usare la mano pesante verso la Slovenia si contrappose la scelta politica della presidenza jugoslava, di fatto dominata dai rappresentanti della Serbia con le proprie province e del fido Montenegro, di interrompere l’azione militare e cercare fin da subito di occuparsi di quello che stava per succedere in Croazia e in Bosnia-Erzegovina. Così iniziò una lunga guerra che si concluse solo a fine 1995 con gli accordi di Dayton che confermarono i confini delle Repubbliche preesistenti con l’unica eccezione di trasformare la Bosnia in uno Stato federale con un realtà serba e una croato-musulmana.
In questa fase la questione kosovara covava sotto la cenere. La provincia serba già in passato aveva chieso vanamente di avere lo status di Repubblica. Con la nuova Jugoslavia nata nel ‘92 di fatto era sotto un controllo politico di Belgrado molto più accentuato rispetto a prima. Inizialmente le proteste della popolazione albanese furono non violente e guidate dalla Lega democratica del Kosovo di Ibrahim Rugova. Successivamente nacque l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), anche grazie alla possibilità di entrare in possesso delle armi albanesi entrate in circolazione durante la fase di quasi anarchia che aveva colpito il Paese affacciato sull’Adriatico e di quelle non più utilizzate per il conflitto in Bosnia. L’Uck divenne in breve tempo un’importante spina nel fianco per il governo di Belgrado.
I mancati accordi di Rambouillet e l’inizio dell’operazione “Allied Force”
Con diverse intensità ma con vittime da entrambe le parti, la guerriglia albanese e le forze di polizia serbe si scontrarono numerose volte tra il 1996 e l’inizio del 1999 alimentando la preoccupazione della comunità internazionale, che attraverso l’Onu si interessò del conflitto con alcune prese di posizione. La goccia che fece traboccare il vaso fu, nel gennaio ‘99, il massacro di Račak dove circa 40 persone sarebbero state uccise dalle forze serbe. Tuttora oggi ci sono punti di vista differenti su quello che realmente sia successo nel paesino kosovaro, con commissioni di inchiesta internazionali che non hanno dato interpretazioni univoche. In ogni caso la notorietà acquisita dal ritrovamento dei corpi delle vittime portò alla Conferenza di Rambouillet, in Francia, dove alle autorità serbo-jugoslave e all’Uck venne imposta una bozza di accordo che prevedeva una larga autonomia alla regione del Kosovo, mantenendola formalmente sotto la sovranità jugoslava. Inizialmente entrambe le delegazioni rifiutarono di sottoscrivere gli accordi. Gli albanesi perché rivendicavano l’indipendenza piena, mentre i serbi non volevano accettare eserciti stranieri sul proprio territorio a garantire gli accordi. Su pressioni statunitensi ed europee gli albanesi sottoscrissero gli accordi. I serbi no, nonostante la minaccia Nato di un intervento militare.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che fino a questo momento aveva avallato molti dei passaggi svolti, non autorizzò interventi militari, anche a causa del probabile veto di Russia e Cina. Ciononostante il 24 marzo 1999 la Nato iniziò il primo intervento militare della propria storia contro un Paese che non minacciava i membri dell’alleanza. La Nato, che prese vita come organizzazione difensiva, diventava offensiva. L’Italia, all’epoca guidata da una coalizione politica di centrosinistra con a capo Massimo D’Alema, concesse basi e aerei per le missioni di bombardamento nonostante in un primo tempo fosse stata negata la partecipazione diretta dei propri militari.
La guerra tra Nato e Jugoslavia
Il conflitto che caratterizzò la primavera del 1999 durò dal 24 marzo al 10 giugno. Quello che fu osservato in tempo reale durante lo scontro è molto diverso da quello che è stato analizzato ad anni di distanza. Per l’intera durata non avvenne un attacco terrestre dell’alleanza occidentale, terreno che fu lasciato all’Uck, alla polizia serba e all’esercito jugoslavo. Oltre mille aerei lanciarono un altissimo numero di bombe sull’intera Federazione Jugoslava, colpendo Serbia, Montenegro, Vojvodina e Kosovo. Ancora oggi c’è discussione sulla tipologia di bombe utilizzate e se alcune di esse fossero o meno proibite dalle convenzioni internazionali. Contemporaneamente lo scontro in Kosovo portò alla fuga di quasi un milione di persone che si riversarono in Albania e Macedonia, creando una doppia emergenza umanitaria. Furono colpite volontariamente infrastrutture di ogni genere riportando di fatto la Jugoslavia indietro di trent’anni. Fabbriche, centrali elettriche, palazzi del potere, sedi dei mezzi di informazione, ponti stradali e ferroviari, aeroporti, strade, oltre a una serie di errori collaterali. Tra questi l’Ambasciata cinese a Belgrado, dove morirono tre persone e che causò una situazione diplomatica particolarmente tesa con Pechino. Tra gli errori più celebri dove morì un numero molto alto di civili ricordiamo il treno colpito mentre attraversava un ponte a Grdelica, una colonna di profughi albanesi in fuga dal Kosovo e un autobus pieno di civili ancora una volta in transito su un ponte a Lužane, poco a nord di Pristina. Nel capoluogo kosovaro fu colpito il carcere dove morirono per le conseguenze dell’attacco detenuti e guardie carcerarie.
L’attività di contraerea jugoslava fu decisamente insolita. Prevalse la scelta di preservare la possibilità di difesa sul lungo periodo e di conseguenza i sistemi antiaerei sparavano non utilizzando radar. Questo gli permetteva di non essere individuate, ma allo stesso modo garantiva una scarsissima precisione. Di fatto applicarono un fuoco di sbarramento che costringeva gli aerei Nato a volare molto alti ed essere di conseguenza poco precisi. Alla fine del conflitto la gran parte dei mezzi dell’esercito jugoslavo rimase illesa, anche grazie all’opera di camuffamento utilizzata per confondere gli avversari. Centinaia di carri armati e veicoli militari furono nascosti sotto teli mimetici e finti obiettivi di legno o cartone venivano colpiti quotidianamente. Anche la Nato subì perdite di mezzi molto limitate, tra i quali spicca un F-117, considerato un aereo invisibile ai radar, abbattuto nei primi giorni di guerra. Infine va ricordato come i sistemi missilistici jugoslavi fossero in grado di colpire le basi Nato in Italia, ma che fu scelto di non tentare questo tipi di attacchi per evitare risposte ancora più violente.
Provata dagli elevati danni subiti e consapevole di non poter ulteriormente sperare in alcun tipo di soccorso esterno, anche per la mancanza di volontà di nazioni estere come Russia o Cina di portarsi la guerra in casa propria, la Jugoslavia decise di arrendersi con l’obiettivo di perdere il controllo del Kosovo ma non la sovranità, e il 9 giugno firmò assieme ai rappresentanti della Nato l’Accordo di Kumanovo, dal nome della località al confine tra Macedonia e Jugoslavia, che entrò in vigore il giorno successivo. Sul campo rimasero, secondo Belgrado, circa 2.500 vittime civili e circa mille militari. Gli unici caduti del contingente Nato furono due statunitensi che ebbero un incidente con il proprio elicottero. La leadership politica jugoslava sopravvisse fino all’anno successivo: nel settembre 2000 Slobodan Miloševic perse le elezioni presidenziali contro il candidato delle opposizioni, il nazionalista moderato Vojislav Koštunica. Tutti i successori di Miloševic hanno sempre ribadito la condanna alla Nato per l’aggressione subita nel 1999, rifiutandosi di accettare qualsiasi perdita di sovranità serba sul Kosovo.
Dalla Kfor alla controversa indipendenza del Kosovo
Gli Accordi di Kumanovo furono immediatamente seguiti dalla risoluzione 1244 della Nazioni Unite che prevedeva un’amministrazione militare, e inizialmente anche civile, Onu per la regione dopo il ritiro delle forze militari jugoslave. Contemporaneamente doveva essere smilitarizzato l’Uck e si confermava la sovranità jugoslava sull’area. In pochi giorni le truppe Nato, ed in un primo momento anche russe limitatamente all’aeroporto di Pristina, presero il controllo della regione. Non mancarono immediate vendette nei confronti della popolazione serba e perfino l’incendio di luoghi di culto ortodossi. Di fatto il contingente militare, ribattezzato Kosovo Force (Kfor) dovette occuparsi di proteggere la popolazione serba e coloro, anche non serbi, che avevano collaborato con l’amministrazione jugoslava in passato.
Con il tempo gli sfollati di etnia albanese rientrarono nel Paese mentre oltre due terzi dei serbi divennero profughi fuori dal Kosovo. Finanziamenti americani ed europei contribuirono alla ricostruzione delle infrastrutture danneggiate e alla realizzazione di una moderna autostrada che oggi collega il Kosovo ai porti dell’Albania. La risoluzione 1244 prevedeva anche trattative tra Serbia, che dal 2006 aveva preso il posto della scomparsa Jugoslavia, e Kosovo per la definizione di una status politico condiviso della regione.
Nonostante gli sforzi di mediazione le distanze sull’eventuale indipendenza rimasero e si arrivò nel febbraio del 2008 ad una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del parlamento di Pristina, che naturalmente non venne riconosciuta dalla Serbia. La comunità internazionale si divise, con gran parte dei Paesi occidentali, ad esclusione di Spagna, Romania, Slovacchia, Cipro e Grecia, che riconobbero il Kosovo come stato sovrano, mentre Cina e Russia denunciarono il pericoloso precedente che si stava creando. Ad oggi circa la metà delle nazioni dell’Onu riconoscono l’indipendenza di un Paese che secondo una risoluzione delle stesse Nazioni Unite farebbe ancora parte della Serbia.
A distanza di quattordici anni le ulteriori trattative tra Belgrado e Pristina non hanno raccolto i risultati sperati. Si sono normalizzati alcuni aspetti secondari della vita dei rispettivi cittadini, ma non il riconoscimento reciproco. La parte settentrionale del Kosovo, l’unica rimasta a maggioranza serba, continua ad avere un rapporto privilegiato con Belgrado e rifiuta qualsiasi integrazione nello Stato kosovaro. Simbolo di questa ulteriore criticità è la città di Kosovska Mitrovica, attraversata dal fiume Ibar. A nord del corso d’acqua vive la comunità serba, a sud quella albanese. In mezzo i Carabinieri italiani che ormai da anni presidiano questo delicato luogo dei Balcani. L’ipotesi di separare quest’area dal resto del Kosovo vede contrari sia serbi che albanesi. I primi perché sono consapevoli che in altre aree della regione a sud dell’Ibar vivono altrettanti serbi, i secondi perché non vogliono rinunciare alla propria integrità territoriale.
Legami tra i fatti del 1999 e il conflitto russo-ucraino
L’indipendenza del Kosovo come precedente
Dal punto di vista geografico non c’è nessuna connessione tra le vicende kosovare e il conflitto che interessa i due Stati ex sovietici di Russia e Ucraina. Dal punto di vista politico e geopolitico nel 1999 si sono create della dinamiche che secondo una parte della comunità internazionale hanno generato problematiche successive e sono in parte ispiratrici di quello che sta succedendo in Ucraina. Tra queste le possibili similitudini tra l’autodeterminazione del Kosovo e quella della Crimea, entrambe avvenute senza un consenso completo della comunità internazionale e soprattutto in disaccordo, rispettivamente, con Belgrado e Kiev. La penisola che fino ad inizio 2014 era un soggetto amministrativo, con larga autonomia, all’interno dell’Ucraina intraprese prima la strada di rivendicare una propria sovranità e poi quella di unirsi alla Russia. La popolazione della Crimea era in larga parte russa con minoranze tatare e ucraine. La Russia più volte ha citato il caso del Kosovo come provocatoria giustificazione a quanto accaduto.
La Serbia non ha mai mancato di far notare come la comunità internazionale si sia opposta in modo netto al percorso crimeano ma non a quello kosovaro. Nel caso della Crimea avvenne un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale. Nel caso del Kosovo non ci fu referendum, anche se l’esito sarebbe stato scontato vista la predominanza etnica della popolazione albanese. La vicenda che ha caratterizzato la proclamazione di indipendenza del Kosovo viene presa come riferimento anche da Transnistria e Ossezia del sud per rivendicare percorsi simili, ma soprattutto, recentemente, dalle Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk, che costituiscono uno dei principali problemi del conflitto tra Russia e Ucraina. Anche la Repubblica Serba di Bosnia, soggetto federato della Bosnia-Erzegovina, ha più volte accennato alla possibilità di intraprendere la stessa strada del Kosovo per unirsi alla Serbia, aspirazione che potrebbe far tornare al caos i Balcani occidentali.
Attacchi unilaterali senza mandato Onu
Ulteriore possibile elemento di similitudine tra quello che successe nel 1999 e quello che sta accadendo in Ucraina è l’inizio del conflitto in modo unilaterale e senza un mandato delle Nazioni Unite. La Nato affermò che era necessario intervenire per fermare la persecuzione di un popolo nel cuore dell’Europa, la Russia oggi si richiama a quel precedente affermando motivazioni simili finalizzate a proteggere i propri connazionali nell’Ucraina meridionale e orientale oltre che ad un intervento in difesa di due alleati, Doneck e Lugansk, che Mosca riconosce come stati indipendenti.
La preparazione dell’opinione pubblica
Assolutamente diversa la preparazione dell’opinione pubblica in Usa ed Europa relativamente ai due conflitti. Seppure sia nel ‘99 che oggi si svilupparono e si sono sviluppati movimenti pacifisti tendenti a chiedere l’interruzione del conflitto e la non partecipazione dell’Italia, la pressione mediatica ventitré anni fa era decisamente schierata verso una guerra considerata indispensabile, mentre oggi è prevalentemente a tutela dell’aggredito. In realtà questo avviene in Occidente, mentre in Russia dal 2014 ad oggi c’è stata una lunghissima preparazione dell’opinione pubblica a quello che sarebbe successo attraverso una continua denuncia di episodi di discriminazione della popolazione russa in Ucraina. Il copione è simile a quello che tra il 1998 e la primavera successiva avvenne in Europa ed Usa, dove venivano raccontate quasi unicamente le violenze subite dalla popolazione albanese e non quelle verso i serbi.
Popoli che vivevano assieme si ritrovano in guerra l’uno contro l’altro
Quello che, almeno secondo chi scrive, è ancora più similare tra i vari conflitti jugoslavi e quelli nell’area post sovietica è il fatto che popoli che fino a poco prima vivevano assieme, con alte percentuali di famiglie miste, si sono ritrovati improvvisamente in guerra l’uno contro l’altro. Croati e serbi parlavano praticamente la stessa lingua, seppure usando alfabeti diversi e praticando religioni cristiane differenti. Tra russi e ucraini è più difficile parlare di lingua differente, dato che gran parte degli ucraini, ad eccezione della parte più occidentale del paese, parla il russo. Gli alfabeti sono leggermente diversi, ma sempre utilizzando il cirillico. Infine la separazione tra le due religioni ortodosse sono più figlie di aspetti politici che di diversa interpretazione della fede. Fino a pochi anni fa gran parte della musica e delle serie televisive più popolari in Russia erano prodotte da ucraini. Questi ultimi, compreso l’attuale presidente Zelenskij, che oltre che attore è anche un affermato produttore televisivo, rivolgevano le proprie attenzioni commerciali proprio allo spazio ex sovietico, considerati gli oltre duecento milioni di potenziali ascoltatori. Oggi, mentre paradossalmente le 73 puntate delle sette stagioni della fortunata serie tv “Svati”, prodotta dallo studio Kvartal 95 di Zelenskij, continua ad essere seguita dai russi e trasmessa in replica dalle tv di Mosca, il solco nei rapporti umani tra tante persone di entrambi i popoli è sempre più grande, forse ancora più vasto e difficile da colmare di quello tra serbi e croati. Le felici famiglie russe o ucraine dei telefilm di Kvartal 95 sono destinate a diventare ricordi lontanissimi di un passato lontano, un po’ come quella nostalgia che i vecchi film sovietici fanno affiorare nei russi e ucraini più avanti negli anni.