Il massacro di Kindu, la morte in Congo di tredici italiani che in pochi ricordano

L'uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo riporta alla memoria un episodio avvenuto sessanta anni fa nello stesso Paese africano

Un C-119 dell'Aeronautica italiana. Immagine RuthAS (CC BY 3.0)

La cronaca di questi giorni ha raccontato la terribile uccisione, nella provincia congolese di Kivu Nord, vicino al confine con Uganda e Ruanda, dell’ambasciatore Attanasio, del carabiniere Iacovacci e dell’autista Milambo, che si stavano recando a Rutshuru per visitare un progetto del programma di alimentazione mondiale. Il tentativo di sequestro da parte di milizie locali finito in tragedia non è il primo episodio cruento che riguarda italiani in Congo, uno Stato la cui area orientale ha sempre vissuto una situazione di forte turbolenza a causa delle lotte per il controllo delle ricchezze naturali. Quasi dimenticato nel tempo e davvero poco noto il massacro avvenuto sessanta anni fa a Kindu, quando morirono tredici militari italiani impegnati in una missione di pace della Nazioni Unite.

Il contesto internazionale e la “crisi del Congo”

La storia del Congo, così come lo conosciamo oggi, inizia in seguito alla Conferenza di Berlino tenutasi a cavallo del 1884 e 1885, quando l’area passò da essere una colonia portoghese ed in parte olandese a una dipendenza del Regno del Belgio. Tecnicamente il Congo era uno Stato libero di diretta proprietà dei reali belgi. La nazione europea si arricchì fortemente con il commercio del caucciù, fondato su uno sfruttamento lavorativo tale che all’inizio del XX secolo scandalizzò molti. Colpirono l’opinione pubblica europea le fotografie della pratica di tagliare un arto ogni volta che l’obiettivo di caucciù raccolto non veniva raggiunto. A seguito di pressioni di eminenti intellettuali e di altri Paesi europei lo Stato libero divenne ufficialmente la colonia del Congo Belga, passando dal controllo diretto del sovrano a quello delle istituzioni belghe. In questa fase si ebbe un miglioramento delle infrastrutture del Paese e naturalmente continuò lo sfruttamento delle risorse naturali, in particolar modo legname e diamanti. I numerosi movimenti indipendentisti portarono poi il Belgio a concordare l’indipendenza alla colonia. Tutto avvenne molto in fretta il 30 giugno 1960. A seguito di elezioni che videro risultati molto frastagliati e regionalizzati, data la grande diversità anche etnica del Paese, divenne primo ministro uno dei personaggi più carismatici della lotta di liberazione, Patrice Lumumba. Il nuovo leader era fortemente convinto che il Congo dovesse riguadagnare non solo il proprio controllo politico ma anche quello economico che restava saldamente in mani belghe. Innegabile che la partita di nazionalizzare, o far passare comunque dal governo centrale, le concessioni dello sfruttamento minerario gli crearono immediatamente nemici sia nelle aree periferiche del Paese che nell’ex potenza coloniale. Anche il tentativo di togliere al Belgio il controllo dell’esercito congolese portò ad un vuoto di potere e a ribellioni immediate. Nella ricca regione del Katanga, il partito locale di Moise Ciombe, in accordo con i concessionari europei delle miniere, dichiarò la propria secessione dal Congo. Il Belgio non perse tempo a sostenere l’azione di Ciombe nonostante il fatto che, durante la rivolta, i miliziani saccheggiarono e uccisero. Tra i caduti europei anche il console italiano ad Elisabethville (oggi Lumumbashi) Tito Spoglia. Contemporaneamente le stesse dinamiche si ripeterono nella parte meridionale della provincia diamantifera del Kasai, dove il leader dell’etnia baluba si autoproclamò imperatore.

Leopoldo II, re del Belgio dal 1865 al 1909

I fatti di luglio innescarono la “Crisi del Congo”, che portò Lumbumba a chiedere l’intervento delle Nazioni Unite vista l’intromissione del Belgio, dopo dieci giorni dall’indipendenza, nei fatti interni al Congo. Insoddisfatto del solo dispiegamento di inerti Caschi blu, Lumumba chiese e ottenne un aiuto militare dell’Unione Sovietica in agosto. A fine agosto l’esercito congolese, ben armato e supportato logisticamente da Mosca, riprese il controllo di alcune aree in mano agli insorti. L’arrivo dei sovietici in un’area storicamente sotto il controllo politico di uno stato alleato degli Usa portò gli americani ad intervenire con la propria diplomazia. Il risultato fu la cacciata dal potere di Lumumba e un colpo di stato del Colonnello Mobutu nel mese di settembre del 1960. Mobutu avrebbe controllato il paese fino al 1997. Lumumba prima venne messo agli arresti domiciliari, poi riuscì ad evadere e il suo governo diede vita alla Repubblica libera del Congo con capitale Stanleyville (oggi Kisangani) nell’est del Paese. Nel dicembre sempre del 1960 fu però catturato dagli uomini di Mobutu e riportato nella capitale. Il colonnello Mobutu, per non sporcarsi le mani, lo inviò in Katanga dove i suoi avversari politici lo torturarono e uccisero per poi distruggerne il cadavere. Il 17 gennaio terminava la vita dell’unico primo ministro del Congo eletto attraverso elezioni democratiche e libere nel corso del XX secolo.

Patrice Lumumba. Foto di Herbert Behrens (CC0 1.0)

La nazione africana si ritrovò divisa in quattro aree: il Congo guidato da Mobutu, quello guidato dai Lumumbiani, Sud Kasai e Katanga. Mobutu era appoggiato da Usa e potenze europee, l’ex governo Lumumba dall’Urss e dagli stati indipendenti africani, il Katanga dal Belgio e il Sud Kasai restava in piedi grazie all’appoggio dei katanghesi. La notizia dell’assassinio dell’ex primo ministro si diffuse con tre settimane di ritardo favorendo una reazione internazionale che costrinse l’Onu ad un deciso intervento per interporsi tra le fazioni, disarmare i mercenari e avviare trattative di pace. Proprio durante un viaggio in Katanga precipitò l’aereo nel quale morì il Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjold. Nessuna inchiesta ha evidenziato un’ ipotesi dolosa, seppure non sia stata del tutto esclusa. All’interno della missione delle Nazioni Unite operavano anche militari dell’aeronautica italiana.

L’eccidio di Kindu

L’11 novembre del 1961 due aerei italiani C-119, ad una delle loro ultime missioni prima del rientro in Italia, operarono un volo per conto dell’Onu dalla capitale congolese Leopoldville (oggi Kinshasa) a Kindu. Scopo della missione portare i rifornimenti ad un gruppo di Caschi blu malesi di stanza nella città. La missione prevedeva di atterrare a Kindu, scaricare i materiali per il contingente Onu, pranzare, fare una breve riunione e ripartire per la capitale. La zona di Kindu era molto vicina all’area degli scontri tra i fedeli dell’ex premier Lumumba, nel frattempo già giustiziato dai katanghesi, che controllavano il Congo nord orientale, e i secessionisti del Katanga, provincia meridionale ricchissima di risorse naturali. L’arrivo dei due aerei allarmò l’esercito locale congolese, fedele alla Repubblica libera del Congo, che pensò all’arrivo di ulteriori mercenari europei al servizio del ribelli del Katanga. Erano in effetti molti i “bianchi”, in prevalenza belgi, che collaboravano con la provincia meridionale, spesso pagati dalle compagnie diamantifere che avevano l’interesse ad appoggiare i secessionisti. Mentre gli italiani e i malesi pranzavano in una palazzina dell’aeroporto circa ottanta militari locali, poi supportati da altri trecento, occuparono l’aeroporto e presero prigionieri gli italiani. Nella concitata azione, gli italiani e i malesi erano disarmati e furono anche picchiati brutalmente. A nulla servirono le proteste dei malesi che cercarono di far comprendere ai congolesi che i “bianchi” non erano mercenari ma soldati in servizio presso le forze di pace delle Nazioni Unite. Di fronte a questa situazione il Tenente medico Remotti tentò di fuggire da una finestra ma fu immediatamente raggiunto e ucciso. I dodici italiani rimasti e il corpo di Remotti furono trasportati in una prigione all’interno della città in attesa di decidere il loro destino. In serata arrivarono a Kindu altri esponenti delle Nazioni Unite per consultarsi con i malesi e tentare un’azione di forza o intavolare una trattativa con i soldati locali, che nel frattempo non rispondevano più a nessun ordine dei propri superiori, neppure le autorità della parte di Congo per cui combattevano. Nella serata dello stesso giorno o nelle prime ore di quello successivo avvenne la strage degli italiani. Alcune milizie fuori controllo decisero deliberatamente di sparare delle raffiche di mitra sui dodici. Un guardiano del carcere, onde evitare scempi o distruzione dei cadaveri, portò i corpi in un bosco all’esterno di Kindu per seppellirli in una fossa comune. Successivamente alcune fonti locali riportarono il sospetto, naturalmente infondato, che gli italiani rifornissero di armi i secessionisti del Katanga e che quindi andassero puniti. Secondo questa versione i due velivoli era diretti in Katanga e furono fatti atterrare per un imprevisto a Kindu. Anche questa notizia era priva di fondamento visto che non era programmato in alcun modo che gli avieri italiani raggiungessero località diverse da Kindu. Nei giorni successivi le forze Onu cercarono di capire come muoversi e con chi trattare per il rilascio degli italiani senza trovare nessuna sponda sul lato congolese. Solo alcune settimane dopo il custode del carcere informò alcuni cittadini italiani presenti a Kindu della sorte dei militari, aiutando poi ad individuare le fosse comuni dove erano stati nascosti i cadaveri.

Il Congo oggi

Kindu non fu l’unica strage che coinvolse il contingente internazionale nella guerra civile che si protrasse fino al 1965. Mobutu prese il controllo dell’intero paese, soffocò una successiva rivolta di mercenari e rinominò la nazione Zaire. Governò per oltre trent’anni in una dittatura tra le più brutali dell’Africa, pienamente supportata da Stati Uniti, Belgio e molte altre potenze europee. Il quantitativo di denaro che acquisì dalle casse dello Stato varia a seconda delle stime tra i cinque e i quindici miliardi di dollari. Fu deposto nel 1997 dopo una guerra civile. Il leader dei ribelli, Laurent Kabila, che era stato da giovane un alleato di Lumumba, prese il potere e ripristinò il nome Congo. Quattro anni dopo fu ucciso e gli successe il figlio Joseph. Più volte rieletto, quest’ultimo decise di non candidarsi alle elezioni del 2018 vinte dall’attuale presidente Felix Tshisekedi, figlio di un ex primo ministro di Mobutu, seppure caduto in disgrazia dopo il 1980. Tra il 1997 e oggi si sono susseguite ulteriori guerre civili regionali del tutto simili come dinamiche a quelle degli anni ‘60, con la partecipazione anche degli stati africani confinanti. Le enormi ricchezze del Congo continuano a fare gola a tutti e nonostante questo la popolazione continua a vivere in estrema povertà. Ad oggi, come dimostra il triste episodio che ha coinvolto il convoglio dell’ambasciatore italiano, il Congo continua ad essere un Paese con ampie zone funestate da problemi di sicurezza.

Mobutu con il principe Bernhard dei Paesi Bassi nel 1973. Foto di Rob Mieremet (CC BY-SA 3.0 NL)

Le perdite italiane in Congo

La morte di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci e il massacro di Kindu non sono gli unici episodi di perdita di personale diplomatico o militare italiano in Congo. Dopo la seconda guerra mondiale il numero dei caduti italiani nello stato africano è uno dei maggiori subito dopo le più recenti missioni in Iraq o Afghanistan. Come già ricordato nell’anno dell’indipendenza del Congo, proprio i primi giorni dopo il formale passaggio del potere dal Belgio all’amministrazione locale venne trucidato assieme ad altri europei il console italiano ad Elisabethville Tito Spoglia. Nel 1961, durante la crisi del Congo, perirono Sergio Celli, Dario Giorni ed Italo Quadrini in un incidente del loro aereo C-119. Raffele Soru, militare delle Croce Rossa, morì nello stesso anno a seguito di un’imboscata. La settimana successiva all’eccidio di Kindu precipitò un altro C-119 italiano con a bordo Giovanni De Risi, Tommaso Fondi, Elio Nisi e Giuseppe Saglimbeni. Parte dell’equipaggio sopravvisse all’incidente.

Il memoriale

Le salme delle tredici vittime di Kindu vennero ritrovate nel febbraio del 1962 e successivamente trasportate in Italia. Il mese dopo vennero riportate a Pisa, nella base da dove era partita la loro missione. All’interno dell’aeroporto toscano venne costruito, su progetto ampiamente rimaneggiato dell’architetto Giovanni Michelucci, un sacrario per ospitare i martiri di Kindu. A pochi metri dalla struttura, all’interno dell’aeroporto, c’è uno dei due aerei da trasporto con cui i militari italiani si muovevano in Congo. Al funerale solenne prese parte il Presidente della Repubblica Antonio Segni. Altre città italiane, in particolare quelle originarie degli avieri, hanno reso omaggio ai caduti. Stranamente solo nel 1994 fu riconosciuta ai tredici la medaglia d’oro al valor militare e i parenti delle vittime dovettero aspettare il 2007 per avere un risarcimento.

I caduti di Kindu furono il comandante della missione Amedeo Parmeggiani, 43 anni, Onorio Onorio De Luca, 25 anni, Francesco Paolo Remotti, 29 anni, Nazzareno Quadrumani, 42 anni, Silvestro Possenti, 40 anni, Martano Marcacci, 27 anni, Francesco Paga, 31 anni, Giorgio Gonelli, 31 anni, Giulio Garbati, 22 anni, Filippo Di Giovanni, 42 anni, Nicola Stigliani, 30 anni, Armando Fausto Fabi, 30 anni e Antonio Mamone, 28 anni.

L’incisione nel Sacrario di Pisa:

“Fraternità ha nome questo Tempio che gli italiani hanno edificato alla memoria dei tredici aviatori caduti in una missione di pace, nell’eccidio di Kindu, Congo 1961. Qui per sempre tornati dinnanzi al chiaro cielo d’Italia, con eterna voce, al mondo intero ammoniscono. Fraternità.”

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