Le Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk, epicentro della crisi ucraina

Geograficamente in Ucraina ma abitate da russi, le due capitali del Donbass da otto anni si sono dichiarate indipendenti e sono appena state riconosciute come tali dalla Russia. Il passo di Mosca e le ripetute violazioni degli accordi di Minsk potrebbero portare a scenari complicati

La sottoscrizione degli accordi tra Vladimir Putin e i presidenti delle Repubbliche popolari ieri al Cremlino di Mosca. Foto Kremlin.ru (CC BY 4.0)

Al centro dell’attenzione internazionale c’erano finite già nel 2014 attuando una controrivoluzione rispetto a quello che giudicarono il colpo di stato nato in Piazza Maidan a Kiev. Per otto anni sono di fatto state indipendenti dall’Ucraina con l’indispensabile appoggio economico, umanitario e militare della vicina Russia. Le leadership e gli abitanti delle oblast’ di Doneck e Lugansk vogliono da tempo un’integrazione completa all’interno della Federazione Russa e alcuni giorni fa la Duma, il parlamento russo, ha approvato a larghissima maggioranza una mozione che invitava Vladimir Putin ad assecondare questo desiderio. Il presidente russo, dopo aver riunito il Consiglio di Sicurezza, che ha sostenuto la stessa posizione della Duma, ha tenuto un discorso di circa un’ora alla nazione, e di fatto al mondo intero, dichiarando che la Federazione Russa riconosce la sovranità delle due Repubbliche. Subito dopo si è svolta una cerimonia in cui Putin e i due leader delle Repubbliche separatiste hanno firmato il riconoscimento e un patto di assistenza. Il passo della Russia non cambia per ora nulla sul campo, essendo i due territori già da otto anni al di fuori della sovranità di Kiev, ma contribuisce ulteriormente a depotenziare gli accordi di Minsk. Sembrerebbe difficile al momento pensare che sia ancora possibile immaginare, se non con una scelta volontaria della due Repubbliche, un loro ritorno con l’Ucraina in cambio dell’autonomia prevista dall’accordo di Minsk ma mai concessa. Già quasi un milione di abitanti del Donbass ha acquisito il passaporto russo, quasi altrettanti lavorano da anni in Russia e un’ulteriore parte è protagonista di una seconda ondata di profughi, con quasi ottantamila persone, alla data del 21 febbraio, fuggite verso le città russe di Rostov e Voronež. Seconda ondata perché la prima vide arrivare molte persone già nel 2014 in occasione del primo anno di guerra.

Le Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk

L’epicentro della crisi che sta tenendo in sospeso l’Europa è diventato principalmente il territorio del Donbass. Da alcuni giorni le cronache dei media si erano focalizzate sui fatti che avvengono lungo la linea di contatto, la frontiera immaginaria lunga circa cinquecento chilometri che separa i territori controllati dai ribelli filorussi da quelli in mano all’esercito di Kiev. Dal 2015 ad oggi la linea del fronte non è più cambiata, mentre nel primo anno di guerra i territori ribelli avevano occupato un numero maggiore di città per poi arretrare fino al centro di Doneck e Lugansk ed infine recuperare parte del terreno perso conquistando anche uno sbocco al mare. Oltre diecimila i morti in questi otto anni, con moltissimi civili colpiti.

I presidenti della Repubblica di Doneck Denis Pušilin (a sinistra) e di quella di Lugansk Leonid Pasečnik. Foto Kremlin.ru (CC BY 4.0)

Sono circa quattrocento i chilometri di confine russo-ucraino sotto il controllo delle due Repubbliche popolari. La Repubblica popolare di Doneck (DNR) e la Repubblica Popolare di Lugansk (LNR) occupano meno della metà del territorio delle regioni ucraine di cui erano capoluogo, ma hanno il controllo dei principali centri urbani rispettivamente con il 55% e il 70% della popolazione delle due regioni. Il Donbass è la regione più ricca dell’Ucraina grazie alla presenza di enormi giacimenti di carbone e di uno sviluppato settore metallurgico. Il reddito medio, quando i territori erano sotto il controllo ucraino, era circa il doppio di quello delle regioni al confine con la Polonia e a gli stipendi erano secondi solo a quelli pagati nella capitale Kiev. Crimea a parte, le aree di Doneck e Lugansk sono le zone dove l’etnia russa rappresenta circa l’80% della popolazione mentre la totalità utilizza il russo come lingua principale. Con l’indipendenza di fatto, e con lo stop da parte dell’Ucraina del pagamento delle pensioni, le due Repubbliche ribelli hanno adottato il rublo russo come moneta. Perfino le targhe delle automobili adottate sono del tutto simili a quelle della vicina Russia. Sotto certi aspetti il passo del riconoscimento da parte della Federazione Russa non cambia molto sul campo ma è la certificazione di un rapporto che già esisteva e che ora è alla luce del sole.

Cosa cambia con il riconoscimento delle due aree ribelli?

Quando i media occidentali davano continuamente risalto agli scoop dell’intelligence americana o britannica raccontando che la Russia era pronta ad un intervento militare su larga scala, i media del mondo russo si concentravano sul probabile attacco ucraino proprio nel Donbass. Mosca ha sempre dichiarato di non avere alcuna intenzione di invadere l’Ucraina ma allo stesso tempo ha sempre ribadito di non voler tollerare un attacco alla popolazione russa di Doneck e Lugansk. Adesso la cosa è certificata da un accordo già firmato nelle scorse ore a Mosca e con la chiara presa di posizione di Putin, che ha invitato l’Ucraina a non compiere azioni di forza verso Doneck e Lugansk.

La tregua del 2015 a seguito degli accordi di Minsk II ha più o meno retto per sette anni, sebbene un conflitto a bassa intensità sia sempre proseguito. Negli ultimi giorni il numero di violazioni del cessate il fuoco è aumentato enormemente riportando il clima vicino a quello dei giorni di guerra. Le accuse su chi abbia iniziato sono reciproche, come del resto è evidente che ormai entrambi i contendenti sono entrati nella fase di risposta continua agli attacchi. Le cronache di questi giorni raccontano di obiettivi civili colpiti da entrambe le linee nemiche ma anche dell’evacuazione della popolazione delle due Repubbliche popolari verso la Russia. Al momento non c’è ancora un’emergenza profughi sia per il fatto che molti erano già in Russia da tempo, sia per la scelta di molti di non abbandonare le proprie case.

La situazione si presta a possibili scenari molto differenti tra loro. Il primo, naturalmente quello che fino a poche ore fa era stato auspicabile, è che si fermino le ostilità e si ricominci a dialogare ripartendo dagli Accordi di Minsk. Un altro è che le due realtà militari rimangano a lungo in una situazione di stallo e quindi che le offensive ucraine siano contenute dalle forze filorusse. L’ultimo, quello più pericoloso per la reazione a catena che potrebbe causare, è che la Russia intervenga a fianco di Doneck e Lugansk con l’obiettivo di conservare lo status quo. Quest’ultimo diventa più probabile oggi dopo gli ultimi sviluppi tra Mosca e le Repubbliche popolari, mentre resta poco plausibile un’invasione su larga scala. Il posizionamento delle forze di Mosca vicino ai confini ucraini serve soprattutto a costringere Kiev a mantenere unità militari su tutto il proprio territorio piuttosto che concentrarle nei pressi della Repubbliche popolari. Di fatto un deterrente.

In prima fila i ministri della difesa Sergej Šojgu (a sinistra) e degli esteri Sergej Lavrov durante la riunione di ieri del Consiglio di Sicurezza russo. Foto Kremlin.ru (CC BY 4.0)

Il discorso di Putin e i gli sviluppi della situazione nelle ultime ore

La giornata del 21 febbraio è stata un susseguirsi di momenti solenni per il pubblico televisivo russo. Dapprima la lunga diretta (o forse differita) della riunione del Consiglio di Sicurezza dove tutti i principali esponenti della politica russa hanno invitato Putin ha prendere una decisione in linea con il deliberato della Duma nei giorni scorsi; a seguire un lunghissimo discorso del presidente di oltre un’ora, e immediatamente dopo la firma del riconoscimento delle due Repubbliche popolari davanti ai due leader di Doneck e Lugansk. Naturalmente qualcosa non torna sui tempi televisivi e sul vero momento della maturazione della decisione, ma la cosa è passata molto in secondo piano per il pubblico russo interessato soprattutto all’esito finale.

Il discorso di Putin è stato particolarmente duro e allo stesso tempo chiaro. Quasi un manifesto programmatico del proprio modo di vedere la Russia, con principi ed ideali più legati al periodo prerivoluzionario che a quello sovietico. I riferimenti agli spazi russi del passato non hanno avuto base nella grandezza territoriale dello spazio sovietico ma in quella dell’impero zarista. Putin è partito dalla dissoluzione dell’impero russo all’indomani della Rivoluzione del 1917 per spiegare come è nata l’Ucraina e come gli ucraini invece che decomunistizzare il proprio Paese dovrebbero ringraziare Lenin per aver creato loro una nazione. Non ha risparmiato critiche al periodo comunista, citando spesso anche Stalin e riconducendo a loro la perdita da parte della Russia di territori abitati da russi verso altre Repubbliche sovietiche e il fatto che la Russia e l’Ucraina di oggi siano il frutto del riconoscimento dei confini delle Repubbliche facenti parte dell’Urss al momento del collasso dell’Unione Sovietica. L’Ucraina post 1991 è stata bollata come uno stato privo di una propria politica estera e nei primi anni orientato di volta in volta verso est o verso ovest, ma soprattutto sempre fortemente corrotto sia in politica che in economia.

Putin durante il discorso di ieri. Foto Kremlin.ru (CC BY 4.0)

Spazio anche alla questione delle garanzie chieste agli americani ed europei per fermare un ulteriore allargamento ad est della Nato e non avere potenti armi a pochi minuti di volo dalla propria capitale. Il fatto che Usa e Nato vogliano tenere sotto pressione la Russia è stato letto da Putin come la volontà di non permettere ad una nazione di avere una propria indipendenza politica. In modo chiaro il presidente della Federazione Russa ha inoltre ribadito a Kiev di non effettuare azioni di forza contro il Donbass, ora riconosciuto come un territorio indipendente con valori e tradizioni comuni alla Russia.

Nonostante gli scambi di colpi di artiglieria che proseguono in queste ore, non sono mancati a Doneck e Lugansk momenti di festa con fuochi d’artificio e sventolio di bandiere russe. Altri paesi del mondo si stanno unendo al riconoscimento del Donbass: secondo le agenzie di stampa russe potrebbe arrivare a breve il supporto di Cuba, Venezuela e Nicaragua. Non è da escludere che riconoscimenti ulteriori possano arrivare nelle prossime ore. Altra notizia che costituirà elemento di dibattito sarà la scelta della Russia, in accordo con le due Repubbliche popolari, di inviare un contingente di pace lungo la linea di contatto tra l’Ucraina e i territori di Doneck e Lugansk.

A questo punto, dopo il forte passo della Russia la palla torna nel campo di Ucraina, Europa e Stati Uniti, visto che lo scenario configuratosi nelle ultime ore desterà preoccupazione nelle capitali europee e in quella americana. Certamente ci saranno sanzioni, anche se resta da capire di quale portata, visto che non c’è stata l’invasione da sempre prevista e quasi auspicata dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo ci sarà da capire se l’Ucraina si prenderà il rischio di un vero attacco contro il Donbass oppure se i passi della Russia verso il vicino di casa siano o meno terminati. In ogni caso non mancano i motivi di preoccupazione, anche se il solo riconoscimento delle due Repubbliche non è ancora un passo decisivo verso uno scontro militare, dato che per il momento la situazione sul campo non è cambiata. Lugansk e Doneck non erano sotto controllo ucraino prima e non lo sono adesso.

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