L’Isola delle Rose, la micronazione dove si parlava anche tifernate

Ma la lingua ufficiale era l'esperanto. Ripercorriamo la curiosa vicenda che animò un'estate italiana di fine anni sessanta

L'Isola delle Rose (immagine del 1968 in pubblico dominio)

La recente scomparsa di Gianni Di Berardino, tifernate molto conosciuto e figura da sempre molto attiva nella comunità di Città di Castello, ha fatto ricordare nei giornali locali il suo ruolo, assieme a quello di Pietro Bernardini e di altri valtiberini, nella vicenda dell’Isola delle Rose, tentativo di creare una nazione indipendente al largo delle coste romagnole. Nel messaggio di cordoglio del sindaco Luciano Bacchetta si rammenta proprio la sua partecipazione a questa vicenda che ha animato una delle estati italiane di fine anni sessanta.

La Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, o Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj, utilizzando la lingua ufficiale di questa realtà, fu una piattaforma artificiale di 400 metri quadrati posizionata al largo di Rimini, oltre il limite delle acque territoriali italiane. Nonostante non avesse ricevuto alcun riconoscimento internazionale, l’Isola delle Rose ebbe un governo, una moneta (il Milo), dei francobolli, una bandiera e anche un inno nazionale. Sopravvisse meno di due mesi prima di essere occupata dalla Polizia e dai Carabinieri, e resistette circa altri sette mesi prima di essere affondata dalla Marina Militare Italiana.

Il padre di questa vicenda, che porta un cognome direttamente collegato al nome della “nazione”, fu l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, che già a fine anni cinquanta ebbe l’idea di costituire una società con l’obiettivo di costruire una piattaforma marina e poi trascinarla fuori dalle acque territoriali italiane. Costruirla a terra fu un’intuizione utile ad ottenere il permesso della Capitaneria di Porto di Rimini per effettuare sperimentazioni in mare e serviva anche a semplificare i lavori. Si trattava di una struttura di tubi in acciaio che sarebbero stati riempiti di cemento una volta posata la piattaforma sul fondo marino. L’isola fu lentamente costruita tra il 1964 e il 1967 sopra una falda di acqua dolce che permetteva l’autosufficienza idrica.

Il 20 agosto del 1967 fu formalmente inaugurata e inizialmente nulla faceva pensare all’ipotesi della costituzione di una nazione indipendente. Venne realizzato un secondo piano, dei vani per l’alloggio e altri destinati ad attività commerciali. Fu inoltre creato un punto di attracco, chiamato Porto Verde, che permetteva un ingente via vai turistico dalla riviera romagnola. Già in questo momento le autorità portuali riminesi fecero presente all’ingegner Rosa che la sua attività aveva abbondantemente superato i limiti dei permessi ottenuti dalla sua società. Rosa rispose che l’ubicazione dell’isola al di fuori delle acque territoriali italiane escludeva la competenza dell’autorità marittima.

L’indipendenza della piattaforma fu dichiarata il primo maggio del 1968, anche se venne resa pubblica solo il 24 giugno. In realtà già prima della conferenza stampa in cui il Presidente Giorgio Rosa proclamò la sovranità dell’Isola delle Rose cominciarono problemi con lo Stato italiano. Per le forze dell’ordine l’iniziativa di attivare commerci al di fuori delle acque territoriali era uno stratagemma per non pagare le imposte. Alla metà di giugno di quell’anno l’isola era difficilmente raggiungibile a causa del blocco navale messo in atto dalla Guardia di Finanza e dalla Capitaneria di Porto. All’epoca gli unici abitanti della piattaforma erano il tifernate Pietro Bernardini e i riminesi Luciano Ciavatta con la moglie Franca. I tre avevano affittato la piattaforma per abitarci e seguire le attività economiche che sarebbero state aperte nei giorni successivi.

La bandiera della Repubblica dell’Isola delle Rose. Immagine di Sannita (CC BY-SA 3.0)

Il giorno successivo alla dichiarazione del 24 giugno, le forze dell’ordine italiane circondarono l’isola artificiale e ne presero possesso senza trovare alcuna resistenza. Al momento del blitz Polizia e Carabinieri trovarono nella piattaforma il solo Bernardini, dato che i Ciavatta erano a Rimini per attività connesse all’ormai prossima inaugurazione delle nuove attività commerciali dell’isola. A nulla servì il telegramma di protesta che il governo dell’Isola delle Rose inviò al Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat per lamentare la violazione della propria sovranità. In due diverse occasioni deputati dell’opposizione, prima missina e successivamente comunista, chiesero al governo italiano come intendesse procedere attraverso due distinte interpellanze parlamentari.

La vicenda prosegui anche nel diritto civile italiano, visto che la capitaneria di porto di Rimini ordinò la rimozione del manufatto alla società di cui erano amministratori Giorgio Rosa e la moglie e che formalmente era il soggetto giuridico proprietario della piattaforma. Dopo numerose udienze, prese di posizioni di realtà politiche e associative in Italia e all’estero, di mezzi di informazione, oltre al mondo del turismo romagnolo che vedeva di buon occhio il mantenimento dell’isola, si arrivò al capitolo conclusivo della storia della micronazione. Nel febbraio del 1969 la Marina Italiana ebbe il compito di minare la struttura e farla affondare, impresa che si sarebbe rivelata molto più complicata del previsto a causa della resistenza dei piloni.

Nel periodo prima dell’indipendenza, all’interno della struttura erano attivi un negozio di souvenir, un piccolo ufficio postale, una banca e addirittura un bar. Assieme a Pietro Bernardini, anche Gianni Di Berardino faceva parte del nutrito gruppo di tifernati che frequentavano il luogo. Sembra che proprio Gianni si fosse occupato di fare stampare i francobolli, di cui esistono due serie per un totale di cinque emissioni, in una tipografia del territorio tifernate. Interessante e tuttora oggi molto ricercata l’emissione con la dizione “Milita Itala Okupado” (Occupazione Militare Italiana).

Anche alcuni dei souvenir in vendita erano prodotti in Umbria, con ogni probabilità proprio a causa della presenza attiva dei due personaggi di Città di Castello. Le cronache dell’epoca raccontano del boom turistico di questo strano luogo e avanzavano anche l’ipotesi che fosse in programma l’apertura di un casinò o di un’attività a luci rosse. C’è da ricordare che pochi anni prima la Repubblica di San Marino aveva aperto una casa da gioco per cercare di intercettare i turisti della riviera romagnola. L’Italia aveva risposto molto duramente attuando un pesante blocco dei confini della piccola Repubblica, quindi il rischio di ripetere la stessa storia con protagonista una piattaforma marina non piaceva affatto. Erano anni complessi, quelli alla fine del decennio iniziato nel 1960, e la politica italiana non poteva permettere neppure l’eventuale apertura di una stazione radio o addirittura televisiva priva del controllo dello Stato. Anche la paura che uno spazio neutro così vicino all’Italia potesse divenire potenzialmente un avamposto di stati nemici – la Jugoslavia di Tito o l’Albania di Enver Hoxha – non piaceva affatto, come del resto la possibilità che l’isola potesse legarsi a gruppi criminali o terroristici.

Qual era la vera intenzione dell’ingegner Giorgio Rosa? La costruzione di un sogno utopico o una semplice speculazione? Rosa è morto nel marzo del 2017 a quasi 92 anni di età, e in numerose interviste rilasciate negli ultimi anni di vita non ha mai chiarito completamente le dinamiche della vicenda. Nel 2010 ai media della Repubblica di San Marino affermò che all’inizio non interessava l’idea dello stato indipendente, ma semmai l’aspetto dell’extraterritorialità. Riferendosi alla distruzione dell’isola da parte dell’Italia, fece presente che il Paese era in mano alla chiesa e certe libertà non erano ammesse, nonostante negli stessi anni il mondo stesse cambiando radicalmente. Smentì in modo categorico di essere in accordo con la Jugoslavia o altri paesi comunisti e si definì un liberale. Dall’intervista emerse con chiarezza l’intenzione di attivare del commercio senza le imposte italiane, in particolare fece l’esempio della vendita di gasolio ai natanti che avrebbero visitato la struttura. In un’altra intervista rilasciata nello stesso periodo e proposta alla fine di un lungo e interessante documentario realizzato da Cinematica, Giorgio Rosa appare più utopista, affermando di aver portato avanti il progetto perché l’Italia gli stava stretta e inseguiva un ideale di libertà. Probabilmente Rosa era davvero stufo di certe dinamiche del Belpaese e invece che andarsene all’estero provò a costruirselo, un proprio estero, autofinanziandolo.

Per alcuni aspetti attinente alla realtà e per altri assolutamente lontano dalle dinamiche reali della storia è il libro di Walter Veltroni L’isola delle rose, che inquadra la vicenda in un romanticismo sessantottino da cui Rosa era ben distante, visti anche i suoi trascorsi nella Repubblica di Salò. Prossimamente si occuperà dell’Isola delle Rose anche un film programmato su Netflix e diretto da Sydney Sibilia, con Elio Germano che interpreta l’ingegner Giorgio Rosa.

Un’ultima curiosa dinamica, forse in parte anche ispirata dalla vicenda che caratterizzò le cronache italiane in quel 1968 è il fatto che negli anni successivi il limite delle acque territoriali di 6 miglia nautiche (pari a 11.112 metri) in vigore all’epoca dei fatti fu raddoppiato e portato alle attuali 12 miglia (pari a 22.224 metri).

Nello stesso periodo dell’Isola delle Rose ebbe una storia simile, ma con migliore fortuna, l’esperienza del Principato di Sealand, al largo delle coste britanniche. Di questa realtà, che ancora oggi formalmente esiste senza che nessuno abbia avuto l’esigenza di minarla o bombardarla, ci occuperemo la prossima settimana.

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