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Valtiberini nel mondo, l’epidemia vista da Los Angeles e Cape Canaveral

L'ingegnere aerospaziale Daniele Boncompagni ci racconta come stanno affrontando l'emergenza gli Stati Uniti

di Redazione
03/04/2020
in Valtiberini nel mondo
Lettura: 4 min.
Daniele Boncompagni

Daniele Boncompagni, quarantaduenne di Sansepolcro, vive da cinque anni negli Stati Uniti assieme a sua moglie e ai loro due figli. È ingegnere aerospaziale a SpaceX, una delle aziende di Elon Musk, il patron di Tesla, e si occupa della progettazione dello scudo termico di rientro della navicella spaziale progettata per raggiungere Marte. Ha avuto un passato anche come ingegnere aerodinamico in Formula Uno, lavorando con Toyota e McLaren.

In quale zona degli Stati Uniti ti trovi?

Da due settimane mi sono trasferito in Florida, a Cape Canaveral, dove c’è il principale poligono di lancio degli Stati Uniti. Prima vivevo a Los Angeles, in California, e ho dovuto anticipare il mio trasferimento in Florida proprio a causa del coronavirus. Volevamo evitare di fare il trasloco all’apice dell’emergenza, sia per la carenza di voli aerei che per le restrizioni di movimento a cui saremmo andati incontro. Allo stesso tempo ero preoccupato per la crescita esponenziale dell’epidemia a Los Angeles, mentre a Cape Canaveral non c’erano focolai. La decisione di spostarmi in anticipo è seguita anche al confronto con amici e familiari in Italia, che mi ha permesso di comprendere la differenza, come contagi e rischi, tra vivere nel cuore della Lombardia o in un paese di provincia come Sansepolcro.

Che situazione hai vissuto in California? E adesso a Cape Canaveral?

La gente in California non aveva percepito molto il problema coronavirus, il cittadino medio lo stava sottovalutando. Le notizie che avevo dall’Italia mi mettevano a disagio, visto che ritenevo necessarie azioni di prevenzione di cui la maggior parte delle persone con cui parlavo non sentiva l’esigenza. Tutti vivevano senza particolari precauzioni. L’unico elemento anomalo è stato, circa tre settimane fa, un assalto ai supermercati per fare scorte, in particolar modo di generi di prima necessità e della classica carta igenica, che nei giorni successivi sono mancati.

Sul fronte istituzionale lo Stato della California si è attivato quando c’erano meno di 500 casi isolando alcune aree focolaio con restrizioni alla mobilità. Appena sono partito i casi erano un migliaio ed è scattato il blocco in tutto lo Stato. Il mio lavoro, invece, non si è fermato, essendo legato alle attività della Nasa e della difesa.

Dove sono adesso ci sono circa 30 contagi nell’intera contea, ma qui nel paese di Cape Canaveral sembra che non ci siano casi. La gente è leggermente preoccupata, mentre il personale medico lo è molto di più. Da ieri sono state attivate in tutta la Florida le prime restrizioni sulla libertà di movimento, che prima erano attive solo nelle contee dove c’erano stati casi di coronavirus.

E nel resto degli Stati Uniti?

Ad oggi in totale siamo attorno ai 200.000 contagi con un tasso di mortalità del 2-3%, più basso rispetto all’Italia, ma si tratta pur sempre di circa 5000 decessi. Considerando quante persone vivono negli USA ancora il numero non è elevatissimo e in proporzione è inferiore all’Italia. Il maggior numero dei casi è concentrato a New York e nel New Jersey, zone in cui il sistema sanitario è vicino al limite di sopportazione. A differenza dell’Italia, però, molte aziende in un tempo rapidissimo hanno riconvertito la produzione per occuparsi di fornire ventilatori polmonari e altri strumenti utili al sistema sanitario. Idem l’esercito, che ha messo a disposizione ospedali e navi ospedale. Il problema adesso è percepito ma c’è fiducia sul fatto che il sistema sia ancora in grado di reggere.

In questa situazione i provvedimenti necessari sono presi dall’autorità centrale o dai singoli stati?

Negli USA il problema è stato gestito in modo completamente diverso rispetto all’Italia. Il governo federale ha dato delle linee guida sulle procedure ma l’attuazione è stata fatta in modo indipendente da parte dei singoli stati, che in base alla gravità delle varie situazioni hanno adottato manovre limitative o contenitive, a volte diverse per città o contea. L’approccio è stato molto diverso tra stati a guida democratica o repubblicana: i primi in generale sono stati più cauti e hanno puntato a contenere il virus in anticipo, mentre gli stati repubblicani hanno puntato di più sulla tutela dell’economia, facendo azioni in ritardo e prendendosi qualche critica. Il livello federale centrale si è occupato di approvare provvedimenti speciali al fine di tutelare l’economia e le persone in stato di disagio. Ci sono già milioni di richieste di sostegno alla disoccupazione che si è creata in questa crisi e con ogni probabilità si innescherà una pesante recessione.

Come giudichi l’operato di Trump da prima dell’inizio della crisi ad oggi?

Il Presidente Trump ha sottovalutato la cosa, anche banalizzandola. Ha inviato messaggi sbagliati condizionando l’opinione pubblica che ha avuto poi un approccio altrettanto sbagliato. Nell’ultima settimana la tendenza si è invertita, Trump si è reso conto della gravità della situazione ed è passato dal «tutto ok» ad annunciare il rischio di cento-duecentomila morti. Sono rimasto stupefatto da questo rapido cambio di approccio e anche dal suo rifiuto di accettare responsabilità per quello che non è stato fatto precedentemente.

Come viene raccontata dai media americani la situazione negli Stati Uniti ed in Italia?

I media americani sono storicamente bipolari, essendo filodemocratici o filorepubblicani, quindi la stampa si è divisa tra coloro che erano in linea con Trump e quelli che stigmatizzavano il suo comportamento. Chi ascolta o legge si può formare un’opinione completamente diversa in base a quale testata segue. È stata invece davvero molto poca l’attenzione allo svilupparsi del problema in Europa o in Italia. Le notizie provenienti dal vecchio continente erano scarse e spesso in secondo piano.

Tags: coronavirusDaniele BoncompagniStati Unitivaltiberini nel mondo
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