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Pangiallo, la ricetta valtiberina

Un'altra preparazione tipica del periodo pasquale nel nuovo appuntamento con l’associazione Le Centopelli. La ricetta, gli abbinamenti e tutti i segreti di questa pietanza tradizionale

di Le Centopelli
13/03/2021
in Gastronomia consapevole
Lettura: 5 min.
Pangiallo, la ricetta valtiberina

Continuano gli approfondimenti dell’associazione Le Centopelli con le ricette che ci accompagneranno al periodo pasquale. Questa settimana vi sveleremo tutti i segreti del pangiallo. Molto diffuso in Valtiberina, dall’inconfondibile gusto delicato e la dolcezza dello zafferano, in passato era considerata una pietanza che accompagnava le occasioni importanti, abbinato a salumi ed in particolare al tradizionale capocollo. Ancora oggi viene preparato nel periodo che precede le feste Pasquali ed servito specialmente in occasione della ricchissima colazione tradizionale.

Ci propone la sua versione la nostra socia ed amica Norma Bardossi.

Ingredienti

  • 1kg di farina 00
  • 1 bustina di lievito madre
  • 1 cubetto di lievito fresco 25g.sciolto in un po d’acqua
  • 60g olio di oliva
  • 2 cucchiaini di sale
  • 1 cucchiaino di pepe
  • 1 cucchiaino di zucchero
  • 150g di strutto
  • Acqua quanto basta
  • 500g di uvetta

Mi sono dimenticata la cosa più importante: lo zafferano!

  • 5 gr di zafferano stigmi, oppure 4 bustine in polvere.

Ognuno ne aggiunge o ne toglie secondo il proprio gusto.

Preparazione

Amalgamare il tutto e solo alla fine aggiungere l’uvetta.

Far lievitare la massa per circa 1 ora e 30.

Formare 4 pagnotte tonde da 500g l’una (circa).

Inciderle a croce con una lametta e lasciare lievitare di nuovo per 1 ora.

Spennellare le pagnotte con un uovo diluito con acqua e infornare a 180 gradi per circa 35 / 40 minuti su forno ventilato.

Ais Delegazione di Arezzo – Gruppo operativo Valtiberina Toscana consigliano:

a cura di Antonella Greco

La certezza di dove arrivi l’appellativo “Santo”, non l’ha nessuno. C’è chi dice che un frate senese usasse un vino dolce per curare con successo i malati, chi invece chiama in causa il Concilio di Firenze del 1439, dove il greco Bessarione, pronunciò il termine “Xantos” ( giallo), riferendosi ad un vino dolce fatto con uve appassite.

Qualcuno infine fa riferimento al vino utilizzato durante la celebrazione della Santa Messa, o alla settimana Santa come termine ultimo per l’appassimento delle uve. Qualunque sia l’origine, il Vin Santo merita proprio questo appellativo. E’prodotto con uve di Malvasia Lunga o Trebbiano, e vengono selezionati solo i grappoli più belli, che vengono essiccati su graticci o appesi ai ganci in luoghi con la giusta umidità e ventilazione in modo da nn creare “muffe cattive”. Le torrette delle antiche Leopoldine o le soffitte, erano proprio il luogo ideale. Un altro elemento indispensabile per la buona riuscita del Vin Santo è il caratello, all’interno del quale il mosto incontra la feccia delle precedenti produzioni e ci si “crogiola” per circa tre anni. Tra i vini, il Vin Santo profuma di famiglia, di terra e di tradizioni, e proprio come il Pangiallo, scandisce il ritmo della Pasqua che arriva ogni anno.  Colore giallo ambrato, brillante, con sentori di burro, frutta secca, albicocca, noci mandorle. Una buona acidità che lo contraddistingue dagli altri passiti.

Agli appassionati consigliamo anche il Vin Santo Occhio di Pernice, prodotto con il ribelle Sangiovese, e a tutti di leggere bene l’etichetta. Se nn lo producete voi, o nn avete un amico generoso che ve ne offre una bottiglia, guardate che nn vi sia scritto “vino liquoroso”, perché quella è un’altra storia!

PS: Se il pangiallo lo mettiamo ad accompagnare la ricca colazione di Pasqua, insieme a crostini neri, salame e uova, e nn siete amanti dei vini dolci, vi consigliamo un vino morbido, giovane e abbastanza persistente come ad esempio un Bolgheri D.o.c. ( a base Cabernet Franc).

Nunc est bibendum!

I consigli di Augusto Tocci

Lievito – Con questo temine si intende un gruppo di funghi unicellulari che vengono usati sia per la preparazione di bevande alcoliche fermentate sia per la comune lievitazione degli impasti. Il saccharomyces cerevisiae è il conosciutissimo “lievito di birra”, scoperto addirittura dagli antichi Egizi verso il 1500 e rappresenta il prodotto più usato, in assoluto.

Tutt’altra cosa è il “lievito madre”, che è un impasto di farina e acqua acidificato da un complesso di lieviti e batteri lattici in grado di avviare la fermentazione. Una volta presente in ogni casa, col tempo ha ceduto il posto a quello di birra, più veloce e versatile. Anche se oggi sta rivivendo un periodo felice in seguito a una sorta di ritorno dei consumatori ai prodotti naturali. Non che quello di birra sia artificiale.

Scegliamo bene – Più comune, il lievito di birra e lo troviamo fresco, confezionato sottoforma di panetti, oppure essiccato e liofilizzato, quindi più facilmente conservabile.

Conservazione – Il lievito in panetti va tenuto in frigorifero. Quello secco si può lasciare in dispensa. In entrambi i casi, sulle confezioni sono riportati modi e tempi di conservazione.

Proprietà – In commercio si trova anche un tipo di lievito in compresse indicato come integratore alimentare, utile come rimedio per diverse patologie, specialmente dell’apparato digerente.

Tags: Augusto Toccigastronomia consapevolepangiallo
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